Marco Mancassola: Sicilian Ghost Story ha potenziato gli elementi da fiaba archetipica del mio racconto

Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, presentato a Cannes come evento d’apertura della Semaine de la critique, è ispirato al racconto Un cavaliere bianco, scritto da Marco Mancassola e contenuto nella raccolta Non saremo confusi per sempre (Einaudi, 2011). Marco Mancassola è uno scrittore italiano, nato a Vicenza, che da diversi anni risiede a Londra. Un caso di scrittore in fuga? Può darsi. Londra per gli italiani in questi anni è la città della Brexit, è la meta per tanti ragazzi che sembrano non poter fare altro che andare all’estero a cercar futuro. Abbiamo raggiunto Marco ad un mese ormai dall’uscita di Sicilian Ghost Story ancora presente in diverse (poche ma buone, come si dice in questi casi) sale italiane, e sicuramente protagonista di tutte le rassegne di cinema di qualità che arriveranno con l’autunno. Abbiamo parlato con lui del lavoro di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, del legame tra cinema e letteratura, di cosa voglia dire vivere a Londra in questi anni, e del fatto che ogni tanto riceve lettere di insulti da qualche ragazzino americano per aver rivelato in uno dei suoi libri che Batman è gay.

 

In diverse interviste Piazza e Grassadonia hanno dichiarato che il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo hanno rappresentato per loro un momento decisivo nelle loro vite; dopo quel fatto entrambi hanno deciso di lasciare la Sicilia perché quell’episodio segnava in qualche modo un punto di non ritorno, una sorta di impossibilità di vivere e stare ancora in quella terra.L’andare via non ha guarito quella ferita a tal punto che quella vicenda èstata più volte considerata come spunto per un possibile film. Hanno dichiarato che per loro era stato impossibile affrontarla fino a quando non hanno letto la tua raccolta di racconti Non saremo confusi per sempre. «Solo in quel momento, seguendo la suggestione potentissima creata da Marco abbiamo capito che se c’era un modo per avvicinarsi, l’idea doveva essere quella». Come ha funzionato il processo creativo che ti ha portato a trasformare un orribile fatto di cronaca in una sorta di storia d’amore tra due ragazzi?

La raccolta citata dai registi riuniva alcune storie ispirate, ognuna, a casi traumatici di cronaca italiana. I racconti prendevano il trauma reale e lo mischiavano a una parte di letteratura inventata (in alcuni casi realistica, in altri metafisica). Il lettore poteva sempre riconoscere il confine fra i due piani di narrazione, ma era nella collisione fra quei due piani che si cercava una redenzione, una salvezza ovviamente non letterale – chi è morto rimane morto – ma morale e dei sentimenti, in qualche modo. Non avevo rapporti personali con i casi narrati, e infatti nel libro non usavo i nomi delle vittime, per una forma credo di pudore. Mi sono limitato a scegliere casi che mi avevano colpito nell’inconscio e che avevano ferito, con ogni evidenza, anche l’inconscio collettivo. Uno di questi era la storia del bambino rapito dalle cosche mafiose negli anni ’90. I due registi hanno accolto le intuizioni centrali del mio testo – l’invenzione della compagna di classe, l’ossessione amorosa irrazionale, la storia di formazione anni ‘90, lo scontro con il mondo adulto, gli scambi luminosi in codice morse con l’amica, e altri… Soprattutto hanno accolto l’elemento inconscio, potenziando ancora di più il ricorso a elementi da fiaba archetipica, a una certa fluidità onirica.

Com’è avvenuto il contatto con i due registi?

Dopo aver letto Non saremo confusi per sempre vennero a Londra, andammo a cena. Fin da subito ci fu un’intesa, la sensazione che fossimo dalla stessa parte nella maniera di sentire le cose, di pensare a storie italiane che non per questo, però, dovevano essere raccontate in modi tipicamente italiani. In seguito li raggiunsi per alcuni giorni a Roma per discutere dello sviluppo cinematografico della storia. Nel frattempo avevano finito Salvo e vinto la Semaine de la Critique. La sceneggiatura l’hanno scritta da soli: Antonio e Fabio lavorano in coppia, sono una mini squadra con un equilibrio consolidato, e questo era un film delicato da sviluppare. Sono stato felice di affidare la storia alle loro mani.

 

Si dice che l’unico modo, o il modo più corretto, di portare una pagina sul grande schermo sia quello di tradire il materiale di partenza. In questo senso come ti è sembrato il tradimento, il cambiamento, l’elaborazione che i due autori hanno fatto del tuo lavoro?

Le differenze più forti fra racconto e film riguardano lo spazio temporale della storia, che nel mio racconto è più ampio di quello del film, e l’ambientazione. I registi, che al contrario di me sono siciliani, si sono riappropriati dell’ambientazione. Lo hanno fatto mettendo in scena un loro spazio fisico e dell’anima, una Sicilia fatta di boschi, di laghi misteriosi, di natura mitica e presenze animali. Gli animali fanno da testimoni e da simboli, come animali-guida o come gli accompagnatori di un viaggio sciamanico. Legare tutto questo alle suggestioni della storia di formazione – ragazzine che ascoltano rock, che si colorano i capelli e fanno hula hoop – e alla riconoscibile vicenda vera di mafia era una scommessa forte, estetica prima ancora che narrativa. C’è una scena nel film che c’era già nel mio racconto, ma che in realtà proviene dritta dalla confessione reale di uno dei carcerieri. Nel trasporto fra un luogo di prigionia e l’altro, il ragazzino, chiuso in un bagagliaio, ridotto quasi a uno scheletro dai maltrattamenti e probabilmente già condannato a morte, sente l’odore del mare. Il mare è davvero nelle vicinanze, o lo sta immaginando? Che ne sa, lui, ormai, degli odori della vita? Ma tutto il senso della storia sta in quel sentire, in quell’immaginare. Quando sei tenuto al chiuso e al buio per mesi e mesi, è il mondo intero che diventa un fantasma, ma è un fantasma necessario per restare aggrappati alla vita, almeno un altro po’. Anche per questo funziona bene il titolo del film, che a sua volta segnala il lavoro di scavo fatto dal film.

 

Nella raccolta Non saremo confusi per sempre c’è anche un racconto intitolato Bella addormentata, il soggetto attorno al quale ruota la vicenda è Eluana Englaro. Marco Bellocchio ha girato un film sullo stesso tema e con lo stesso titolo. Cosa ne pensi di questa coincidenza? Quanto deve la tua raccolta al cinema di Bellocchio che, diverse volte nel corso della sua opera, ha cercato di raccontare L’Italia, producendo sempre degli slittamenti strani e suggestivi.

Ai tempi in cui uscì la notizia del progetto cinematografico di Bellocchio ci fu una telefonata di chiarimento fra me e il regista. Bellocchio aveva letto il racconto, uscito tempo prima, ma che il suo film e il mio racconto avessero stesso tema e simile titolo era una coincidenza. Peraltro, in realtà il mio testo si intitolava Una bella addormentata, il film di Bellocchio “Bella addormentata”: due variazioni rispetto al titolo della famosa fiaba. Non c’era niente di così strano, in fondo, che entrambi avessimo accostato la vicenda nota di una donna in stato vegetativo permanente con il titolo di quella fiaba. Sono d’accordo con quanto dici rispetto alla capacità di Bellocchio di raccontare l’Italia attraverso “slittamenti”. Non so se il cinema di Bellocchio mi abbia dato stimoli per la raccolta di racconti, non a livello conscio, almeno. Ma un racconto del reale senza “slittamento” difficilmente mi interessa, sia daspettatore che da lettore e narratore. Se è per questo, l’intero presupposto di una narrazione puramente realistica non riesce a coinvolgermi davvero, ma neppure il puro fantastico mi interessa se non ha radici nel reale, nell’attuale, nel trauma reale o realistico di una persona o di una nazione. Realismo e non-realismo sono i termini di un conflitto antico nella narrazione (letteraria e cinematografica) italiana, una dialettica che a volte è stata rimossa quasi con imbarazzo, e che negli ultimi anni mi sembra diventata una sorta di impasse, di indecisione spinosa per alcuni narratori.

Proprio all’indomani della pubblicazione di Non saremo confusi per sempre hai lasciato l’Italia per Londra. Com’è la vita in questa città per uno scrittore italiano? Il contesto favorisce il lavoro letterario, inteso siacome pratica che come possibilità “altre” (incontri con autori, stimoli, collaborazioni)? In Italia, Londra è percepita come meta per chi se ne vuole andare, ma anche come città simbolo di qualche movimento epocale. Le persone ci vogliono vivere, ma la Brexit ci segnala che un sentimento nazionale vorrebbe gli “stranieri” fuori dai confini. Cosa ne pensi?

Gli italiani vivono a Londra per motivazioni personali e lavorative, per scelta o ambizione o magari per disperazione. È un posto dove vivere e lavorare, e discutere oltre di come sia la vita di un autore italiano a Londra tutto sommato non mi sembra molto interessante. Londra è ovviamente anche una grande metropoli globale e questo la rende attraente per alcuni e insieme piena di contraddizioni. La vita attuale della città si confronta con una serie di emergenze croniche: disuguaglianze sociali, crisi degli alloggi, minaccia terroristica, e in ultimo il processo della Brexit. Vivo la Brexit come una complicazione, un atto lesionistico e autolesionistico in un’era in cui è assurdo creare un ennesimo fronte di crisi, e in cui le emergenze globali si affrontano solo globalmente, non facendo un passo indietro dal mondo che il Regno Unito stesso ha contribuito a forgiare. Theresa May non ha firmato la lettera di protesta dei leader europei contro la decisione di Trump sul clima, mi sembra un esempio tremendo e significativo. Non la vivo però come un conflitto di identità: sono veneto, italiano, londinese, tutte identità che possono stare insieme. Il conflitto della Brexit è semmai fra Londra e il resto dell’Inghilterra. Certo, temo che Londra ne uscirà cambiata e in parte questo sta già accadendo. Vedremo come i risultati delle ultime elezioni influenzeranno il futuro immediato della città. Da parte mia, in queste settimane sono impegnato a fondare una scuola di scrittura creativa in italiano, e a far partire un festival italiano e internazionale di letteratura. In altra parole, ritengo che Londra resterà una città anche italiana per almeno un altro po’ di anni.

 

Il tuo libro più ambizioso, La vita erotica dei superuomini, in questo momento è nelle mani della casa di produzione americana Annapurna.

Il romanzo uscì in inglese con un piccolo editore, finì sul quotidiano The Independent e da lì fu preso di mira dai troll del Drudge Report, per i quali il succo di un intero romanzo letterario corale di cinquecento pagine era che «uno scrittore italiano dice che Batman è gay». Ancora oggi ogni tanto ricevo insulti da qualche adolescente della provincia americana. La parte positiva è che il libro finì sulla scrivania di vari executive. Credo che Annapurna sia interessata a storie che allargano in modi inediti, fuori dai canoni delle serie per adolescenti, lo sguardo sulla materia ormai consumata del supereroe. Non penso ne faranno mai nulla, comunque bello che lo abbiano letto e opzionato.

 

http://www.marcomancassola.com/

 

 

A Cura di Alberto Fassina