Piazza Vittorio: Abel Ferrara, Roma e le sue vite

Un regista che tenta di trovare la sua via per vivere: così si definisce Abel Ferrara nel documentario dedicato e ambientato a Piazza Vittorio Emanuele II, nel rione Esquilino, la più grande di Roma. E come lui cercano la via per vivere i rappresentanti di un’umanità multietnica che, nel raccontare le singole storie, descrivono un coacervo di possibilità destinate ad allargare sempre più i confini di un crocevia naturale. In Piazza Vittorio, le immagini sul presente si intrecciano, infatti, a quelle del passato, che mostrano un ritratto sempre cangiante dell’area, già mercato all’aperto e quindi zona popolare per eccellenza, ricettacolo di vite e storie. Oggi, naturalmente, c’è la Roma della “monezza” e dell’integrazione più o meno difficile con i vari immigrati del caso, che hanno preso ampiamente possesso degli spazi mercatali rimasti e che, per il resto, cercano il lavoro o attendono i documenti per proseguire i loro viaggi. Ferrara indaga questa realtà con un gusto per la verità della vita che non diventa mai sterile indagine antropologica: l’autore americano ama invece esaltare gli imprevisti, le differenze, gli scarti che in altre mani renderebbero imperfetto il lavoro e che qui lo ammantano della sincerità dell’inatteso. C’è l’immigrato che chiede di essere pagato per parlare e “contratta” letteralmente il suo tempo, mentre Ferrara tenta di “dirigerlo” spiegandogli la distanza dalla macchina da presa per mantenerlo a fuoco – e quando non ci riesce scoppia in una poderosa risata di cuore; c’è la scena di dialogo in cui il regista stesso passa distrattamente davanti all’obiettivo della macchina da presa; e c’è l’immagine un po’ idilliaca degli “stranieri” che apprezzano la generosità italica, contrapposta alle urla dell’anziana signora che inveisce contro “quelli” che hanno “rovinato l’Italia”. L’afflato vitalistico e sincero ritrova quella strana disorganicità tipica dell’ultimo Ferrara cinematografico (si pensi a Pasolini) e la ricontestualizza in un’opera che è sghemba come la realtà che racconta, un luogo definito ma senza particolari confini, uno spazio chiuso/aperto che si fa naturalmente approdo o punto di passaggio – senza che in realtà venga spiegato perché tutti questi personaggi abbiano naturalmente deciso di fermarsi proprio lì.

Si resta sinceramente ammirati e catturati da una realtà che non è trasfigurata, ha il sapore dell’essere lì, in quel momento, a catturare le immagini e le storie nel loro farsi, che chiunque abbia visitato Roma una sola volta riconoscerà senza filtri né mediazioni: e, allo stesso tempo, si ammira la capacità di rendere questo magma così coeso, epico nel senso etimologico del racconto di gesta che sono leggendarie per la loro consistenza. Basti pensare alla comunità peruviana che celebra la Festa del Sole spiegandone i possibili legami con la cultura millenaria romana. La storia del singolo riverbera quindi le dinamiche e i drammi di un’epoca e impone perciò un secondo livello di interventi che rimetta le cose in prospettiva. A fornirlo sono la storia e il corpo delle presenze più note: Ferrara stesso, certamente, che si rimette in gioco nella sfida di questa narrazione; ma poi anche Matteo Garrone, che dal suo appartamento in zona racconta il rapporto con il quartiere, la piazza e i suoi cambiamenti nel tempo; e poi ancora Willem Dafoe, trasferitosi a Roma da anni, che non nega la sfida dell’affrontare una realtà così diversa dalla sua, eppure affine a un certo spirito delle grandi comunità newyorkesi. La scheggia più imprevedibile resta però quella della sede occupata da Casa Pound, che fornisce la sua ricostruzione storico-sociologica del problema legato ai flussi migratori e all’identità “liquida” che “in cinquant’anni vedrà gli italiani rimpiazzati”. La scelta stessa di affidare un momento così centrale e lucido a una realtà tanto controversa non è che l’ennesima riprova di un esperimento che in ogni momento sembra ben definito rispetto a se stesso, eppure capace di sorprendere per le sue svolte e le possibilità in grado di suscitare. Un’opera che può servire per il più classico dei momenti di riflessione, ma che è anche e  soprattutto una bella esperienza immersiva, e quindi un esempio di cinema che, anche lui, cerca la sua via per vivere mentre racconta l’ennesima trasformazione di un luogo e un mondo.