Ambigue progressioni dell’action: su Chili The Hunt, di Craig Zobel

Il gioco è sempre il “most dangerous”, in un mondo ormai pieno di Conti Zaroff pronti a esercitare il meccanismo da homo homini lupus: ciò che cambia è come sempre il contesto e l’intento del raccontare la moderna Pericolosa partita. Nella mani di Craig Zobel, in effetti, l’idea è affascinante, soprattutto ripensando a quel suo folgorante Compliance – visto al Torino Film Festival nel 2012 e poi rimasto inedito – in cui l’abilità nel giocare con i meccanismi del thriller andava di pari passo con un arguto piglio sociologico nel raccontare la manipolazione del mondo per vie virtuali e la loro ricaduta sul reale. Lì era una malcapitata commessa a essere torturata dai colleghi per eseguire gli ordini di un falso poliziotto che li istruiva per telefono: una chiara dimostrazione di quanto i meccanismi dell’autorità e della subalternità siano connaturati al nostro modello sociale e perciò facilmente applicabili e manipolabili. In The Hunt si procede un passo oltre, e il range si allarga a un gruppo di prede e cacciatori, entrambi armati come in una strana parodia degli Hunger Games, dove il tentativo di farsi fuori a vicenda è costellato di continui inganni.

 

 

Il film (che ha saltato la sala ed è ora disponibile su Chili) adotta proprio questo punto di vista incerto e il rovesciamento delle tipizzazioni è reso subito evidente dal divertito girotondo con cui tutti i possibili protagonisti vengono falciati senza troppi complimenti, ancor più se a interpretarli è un volto noto (come Emma Roberts, la prima a cadere). Ogni volta che pensi di aver trovato il “tuo” eroe, questo muore e si ricomincia con un altro: saltano i punti di riferimento, insomma, e resta solo la necessità di continuare, aspettando che il ritratto generale si riveli poco alla volta, e sempre lasciandosi dietro qualche margine di dubbio. In questo senso non appare estraneo l’apporto di Damon Lindelof in fase di sceneggiatura e produzione, e pure i trascorsi dello stesso Zobel nelle serie tv, di cui The Hunt riprende la natura performativa del mezzo che prima ancora di raccontare deve stupire e scioccare, per lasciare lo spettatore sempre un passo indietro, pena il cambio di canale. La speranza, alla fine è che i contorcimenti di scrittura e il ritmo sostenuto bastino a celare le criticità dell’insieme. Se infatti The Hunt pone sul piatto alcune questioni niente affatto banali, dall’altro resta costante una certa ambiguità di fondo. A tenere le fila del gioco è così un’élite capitalista di area progressista che si preoccupa delle questioni ambientali, salvo covare, dal conforto dei propri salotti, un forte risentimento verso i ceti popolari, visti come qualunquisti e conservatori, da affogare pertanto nel sangue. O forse è solo una fake news abilmente diffusa da naviga(n)ti leoni da tastiera, e quindi l’élite sopra citata diventa più la vittima che il carnefice.

 

 

Certo, l’idea interessa in quanto sembra calzare a pennello alla confusione percettiva di un mondo in cui sono cadute le ideologie (e gli schieramenti) e dunque il dibattito si indirizza su un disturbante pastone di complottismi, nuove categorie (boomer, radical chic, sovranisti) e confusione perenne. Il tutto amplificato da un tono composito, in cui ogni passaggio è continuamente sottoposto alla propria demistificazione, attraverso progressivi slittamenti dal dramma alla commedia, dalle azioni più violente alle battute più dissacranti. Se si riesce a non lasciarsi sfiancare dal continuo gioco di intelligenza esibita, al momento di tirare le somme, però, ci si accorge facilmente quanto la ricercata confusione lasci spazio al cinismo e a una costante doppiezza. Quella che, pur volendo demolire sia l’una che l’altra parte, conservatori e progressisti, complottisti e abolitori intellettualoidi del suffragio universale, finisce comunque per parteggiare (e farci tifare) per ex soldati, fanatici del grilletto facile e vecchi repubblicani male in arnese e senza neanche la capacità lirica che rende invece grandi gli eroi razzisti di un S. Craig Zahler. Il divertito gioco al massacro si rivela perciò un esperimento scaltro nella concezione, ma acerbo nella resa, la cui furbizia è evidente pure nel modo in cui è attento a non calpestare i piedi sbagliati: basti notare come anche qui emerga un modello di donna forte e per nulla subalterna all’uomo, seminale nelle moderne tendenze della Hollywood post #MeToo. Che di per sé è un intento lodevolissimo, ma in questo scenario finisce per assumere invece una caratura svilente perché programmatica. Per fortuna, l’irresistibile carisma di una strepitosa Betty Gilpin, permette a un ruolo altrimenti stereotipato di scavalcare i limiti di una progettualità spicciola, candidandosi alla possibile scalata al culto. Insieme alla Gal Gadot di Wonder Woman, alla Samantha Weaving di The Babysitter, Finché morte non ci separi e Guns Akimbo e a Matilda Lutz di Revenge, si va insomma delineando un panorama di attrici capaci di riscrivere l’iconografia dei ruoli d’azione, sottraendoli con merito alla monopolizzazione di un immaginario tradizionalmente più orientato al maschile. Questa è certamente la parte più interessante dell’operazione, destinata a seminare e raccogliere più di quanto non facciano le evoluzioni di un approccio formulaico anche quando vuole apparire a tutti i costi spiazzante e innovativo.