Hasta la bicicleta siempre!

Il ciclonauta più celebre del pianeta è ancora sulla strada. Questa volta con Hasta la bicicleta siempre! (Ediciclo editore) Claude Marthaler pedala a Cuba dove con il suo passo lento e curioso ci racconta l’isola della rivoluzione.

 

copertina baccalà2Lascio Trinidad all’alba di una domenica di sole: come ovunque, è il giorno più tranquillo in termini di circolazione. Sulla costa sud, tutta molto selvaggia, il ciglio della strada è costellato di strane macchie rosse. Granchi schiacciati e maciullati hanno tatuato l’asfalto. Riesco a scorgere solamente due esemplari sopravvissuti a questa lotta impari tra ruota e chela. Per proteggersi, il granchio solleva le tenaglie in aria e come un kamikaze buca gli pneumatici delle macchine. Se l’uomo (seguito dalla zanzara) è il peggior nemico dell’uomo, a Cuba le chele di granchio e le spine del marabù sono i peggiori nemici del ciclista. Non faccio a tempo a pensarlo che, impietoso di fronte ai tremila chilometri che ho nelle gambe, l’invasore vegetale mi buca due volte lo pneumatico posteriore. Due infime spine sono sufficienti a ribaltare temporaneamente il mio funesto destino di “bicivoluzionario”. È incredibile come senza le mie ruote mi senta vulnerabile e come invece ritrovi il senso di libertà e l’entusiasmo non appena le ho riparate. La doppia foratura mi permette di fare conoscenza con due giovani ciclisti, uno spagnolo e l’altro canadese. Dieci anni fa il secondo è venuto a vivere qui per un anno. È dispiaciuto che i giovani cubani si stiano sempre più americanizzando. «Non ci sono modi per distrarsi da queste parti, è per questo che la gente attribuisce molta importanza al tempo passato insieme, alle relazioni sessuali». Percorriamo in compagnia una ventina di chilometri, poi ci fermiamo per mangiare del pesce all’ombra di una piacevole locanda in cui ci imbattiamo casualmente. Una brezza leggera agita i rami. Tutto fa presupporre una giornata perfetta. Il canadese si ricorda di aver dovuto assistere a un discorso di Fidel e di essersi addormentato due volte ascoltando le sue incongruenze. I due ciclisti si dirigono verso la città di Cienfuegos, mentre io proseguo solo lungo la costa, in direzione di Playa Girón. Attendo per un’ora il traghetto che attraversa la baia di Cienfuegos. Davanti a me, dipinta a lettere cubitali sul molo, la scritta: «¡Bienvenido socialista!».

 

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Sul lato opposto della baia rispetto a Cienfuegos sorge la piccola città di Jagua, dominata da un forte portoghese. Un po’ più lontano, si stagliano gli alti edifici della Ciudad Nuclear dove, secondo i miei prossimi padroni di casa, tra il 1979 e il 1989 circa vissero diciassettemila operai russi e cubani che lavoravano alla costruzione della centrale di Juraguá. La città nucleare assomiglia a una strana creatura spuntata dal terreno, brutta e solitaria, senza legami fisici con il mondo esterno, come un villaggio turistico abbandonato. Qualche chilometro più avanti, intravedo la cupola di cemento che domina la vasta pianura costiera consacrata alla canna da zucchero. L’influsso sovietico è lampante: gigantismo, pesantezza, toni tetri. Il reattore nucleare VVER440, a detta loro dello stesso tipo di quello di Černobyl, avrebbe prodotto energia a sufficienza per fornire elettricitàa tutta l’isola… se l’Unione Sovietica non si fosse disintegrata nel 1991 e questo mostro nato morto fosse diventato la prima installazione nucleare di tutto il continente sudamericano. Attraverso una stretta stradina asfaltata raggiungo l’ingresso della Planta Nuclear, dove la coppia che ha trasformato il casotto che fungeva da posto di controllo in una finca mi lascia passare dicendomi: «Però niente foto!». Man mano che mi avvicino il colosso sembra ingrandirsi, tanto è enorme. Mi trovo davanti al reattore e mi sento minuscolo rispetto ai suoi ventiquattro piani, senza contare la cupola coperta di spunzoni. Sento dei colpi sordi provenire dall’interno di questo sarcofago di cemento armato. Qua e là ci sono uomini che aggrediscono il mostro tecnologico a colpi di mazza, strumento di distruzione preistorico, per recuperare mattoni e sbarre di ferro che consentiranno loro di costruirsi una casa. Nella luce intensa del giorno che muore la mia visita improvvisata e clandestina mi dà brividi di sudore. Spingo a mano la bici fino al Mar dei Caraibi, lungo una sterrata pericolosamente ricoperta di sterpaglie di marabù. Una brezza rinfrescante fa ondeggiare i rari pini di questa terra ai confini del mondo, dove arrivano il canale artificiale e le due giganti condotte di cemento che avrebbero permesso il raffreddamento del reattore. Al tramonto scatto di nascosto qualche foto del tetro edificio che assorbe tutta la luce e i colori. L’ossatura di questo gigante, che non è mai stato dotato di organi interni n455413449_640é di carburante, emana un che di surrealista, un fallimento palese. Istintivamente non mi sento al sicuro a campeggiare in questo vicolo cieco su cui incombe la sinistra presenza della centrale. Mentre torno sui miei passi mi assalgono vecchi ricordi che pensavo ormai sepolti. Rivedo le manifestazioni antinucleari alle quali partecipai alla fine degli anni Settanta a Gösgen in Svizzera e quella contro il super-generatore di Creys-Malville in Francia. Lo smembramento del gigante sovietico all’inizio degli anni Novanta ha scaraventato l’economia della piccola Cuba nell’oscuro período especial, ma l’arresto imprevisto della costruzione del reattore di Juraguá le ha risparmiato il peggio in caso di incidente: il rischio di una contaminazione che avrebbe raggiunto il Messico e l’America Centrale, ma anche gli Stati Uniti.

 

 

cuba Ripenso al romanzo Il ciclista di Černobyl di Javier Sebastián, che racconta l’allucinante storia dei samosjol, “i coloni della vita radioattiva”, che sono ritornati per vivere e morire nella zona proibita. Vasja, il protagonista che si muove in bicicletta, è liberamente ispirato alla figura di Vassili Nesterenko, fisico nucleare e dissidente sovietico perseguitato dal KGB per aver tentato di contrastare la disinformazione sistematica riguardo agli effetti di Černobyl e aver aiutato le popolazioni contaminate. Un uomo animato da una bontà esemplare. È ormai notte quando torno al casotto all’ingresso. Non riesco a liberarmi dell’immagine del mostro immobile e freddo costruito per non funzionare mai. Gonzalo e Alicia, la coppia di guardiani atipici, mi mettono velocemente a mio agio. Pianto la tenda e poi cucino il mio piatto standard di spaghetti. Mi portano un tavolo, mi offrono la possibilità di farmi una doccia e terminiamo la serata a chiacchierare seduti fuori, di fronte all’imponente massa nera che suscita così tanta curiosità. Fino a poco tempo fa abitavano nella Ciudad Nuclear. Alicia faceva le pulizie e ha seguito tutte le tappe della costruzione della centrale. Recentemente lei e il marito hanno falciato il marabù che cresceva intorno all’edificio in cui vivono, creando una superficie abbastanza grande per far pascolare le loro poche bestie. Hanno scommesso sul fatto di riuscire a vivere dei prodotti della finca: «A Cuba, il governo ti mette a disposizione il terreno, poi sta a te farlo rendere e pagare le tasse!». Senza elettricità la serata trascorre conversando di poesia e di amicizia. Racconto loro dei miei viaggi in bicicletta e aggiungo che scrivo e che vorrei più di ogni altra cosa poter visitare l’interno del reattore. Gonzalo, che ha l’aria di uno che sa fare di tutto, incluso il saldatore, mi racconta della sua doppia vita. Di giorno si occupa degli animali. Di notte stacca l’acciaio e, soprattutto, il nichel (che nonostante l’altissimo prezzo a livello mondiale rivende a soli 6 pesos al chilo) dal cuore del reattore, illegalmente. Il governo glielo compra senza chiederne la provenienza. Il giorno dopo Gonzalo, Alicia e una guardia del luogo mi invitano a salire i ventiquattro piani della Central Electro Nuclear (CEN) con il solo ausilio della luce della mia lampada frontale. Mi avvertono di fare attenzione alle numerose buche e sul fondo di una di esse mi indicano una chiazza di sangue secco: un imprudente privo di torcia ci è caduto dentro nel 2012 ed è morto stecchito! «Il giorno della caduta la polizia è venuta a indagare e abbiamo dovuto squagliarcela in tutta fretta». Gonzalo ci fa entrare nel luogo dove lavora la notte: il cuore del reattore, uno spazio circolare allucinante in cui sarebbe dovuta avvenire la reazione a catena. Uno dei suoi colleghi sta staccando il nichel con il cannello da taglio: lampi di luce azzurrognola striano nervosamente questo luogo insolito che sfuggirà per sempre al suo destino radioattivo. Gonzalo probabilmente fa parte dell’ultima generazione di“cacciatori di nichel”, che staccano le pesanti lastre di metallo tossico facendole cadere nel vuoto per quindici metri con un fracasso assordante. In qualunque momento anche gli uomini potrebbero fare la stessa fine.

 

 

cxuba2Privi di mascherine protettive, respirano le sottili particelle di nichel in sospensione nel cuore del reattore esponendosi a un alto rischio di tumore ai polmoni. Vedendomi prendere appunti, Gonzalo e Alicia tentano di minimizzare la portata delle loro azioni: «Lo facciamo soltanto da poco e ce n’è solo per altri tre mesi». Per l’acciaio, poi, per quel che si prende al chilo, non vale nemmeno la pena. E se il governo li scoprisse? «Dovremmo solo pagare una piccola multa, visto che si tratta comunque di un edificio abbandonato». Terra e infrastrutture appartengono tutte allo Stato e sento un certo timore pervadere i miei interlocutori. Affrontiamo gli ultimi scalini prima di accedere a un’ampia terrazza proprio ai piedi della cupola rivestita di punte di acciaio, una gigantesca testa di porcospino. È sicuramente l’edificio più alto del paese. La vista sulle numerose costruzioni circostanti è impressionante e anche verso l’oceano il panorama è spettacolare. A questo punto Gonzalo gira intorno alla cupola come un elettrone libero ed esegue una vera e propria rivoluzione. Fermandosi di scatto ci mostra le sei vasche di raffreddamento del combustibile e comincia a descrivere un insolito campismo: «Guarda, una mano di pittura alle vasche, l’apertura di un buon ristorante e una visita guidata di Alicia trasformerebbero questo luogo in una miniera d’oro! Prova ne è che tutti i turisti che passano di qui, soprattutto i ciclisti, si fermano sempre, ma il governo non è capace di capirle, queste cose!». Vista da quassù, la vita sembra così semplice! Senza crederci più di tanto, confermo comunque la sua teoria raccontandogli che, in tutt’altra situazione, gli ex centri di detenzione sovietici dei paesi baltici sono stati brillantemente trasformati in musei del genocidio. Attirano molti visitatori stranieri, con grande dispiacere dei russi! In termini pratici, il governo pensa ora di trasformare questo involucro di cemento armato in un luogo di stoccaggio per i prodotti tossici di tutta l’isola. Quando? Nessuno lo sa. Nell’attesa,la più grande carcassa cubana, che costruita su una faglia sismica non avrebbe certo resistito a un eventuale tsunami, permette a qualche cacciatore di nichel di sopravvivere. Dice un proverbio cubano: «¡Hay que coger las cosas buenas, porque las malas vienensolas!» (bisogna prendere al volo le cose buone, quelle cattive vengono da sole).

 

(Tratto da Hasta la bicicleta siempre! di Claude Marthaler – Ediciclo Editore – diritti riservati)