NEW YORK - JUNE 12: US linguist and political activist Noam Chomsky discusses the global economic crisis, U.S. military intervention in the Middle East and South Asia and the election of Barack Obama in a lecture called "Crisis & Hope: Theirs and Ours" at Riverside Church on June 12, 2009 in New York City. (Photo by Neilson Barnard/Getty Images)

Chomsky: l’unica ideologia di Trump sembra essere l’ego

In attesa di leggere a metà gennaio  l’ultimo saggio di Noam Chomsky Tre lezioni sull’uomoLinguaggio, conoscenza, bene comune, Ponte alle Grazie propone l’ebook L’America di Trump. Tre interviste di bruciante attualità  nelle quali Chomsky esamina la situazione degli Stati Uniti nel momento dell’elezione di Donald Trump alla presidenza. Lucido e impietoso come sempre, il grande intellettuale ci spiega quello che sta accadendo, senza risparmiarci alcun dettaglio del disastro a cui l’America (e con lei inevitabilmente il resto del mondo) sembra andare allegramente incontro. Particolare attenzione viene data al dramma del cambiamento climatico (in una delle interviste Chomsky è affiancato da Graciela Chichilnisky, una delle maggiori esperte mondiali dell’argomento). Che il Partito repubblicano, definito senza mezzi termini «la più pericolosa organizzazione della storia», si ostina a negare. La speranza, oggi, è ridotta davvero al minimo. Ed è affidata a ciascuno di noi: «la mobilitazione e l’attivismo popolari, se ben organizzati e gestiti, possono avere un peso enorme. E non dobbiamo dimenticare che la posta in gioco è davvero alta».

 

Per gentile concessione di Ponte alle Grazie proponiamo uno stralcio da L’America di Trump.

C.J. Polychroniou: Trump costituisce un fenomeno nuovo all’interno della politica statunitense o l’esito di queste elezioni è da ricollegarsi soprattutto all’avversione per Hillary Clinton da parte di elettori che odiano i Clinton e che sono stanchi della «vecchia politica»?

Noam Chomsky: Non è per niente nuovo. Nel periodo neoliberista entrambi i partiti si sono spostati a destra. I neodemocratici di oggi somigliano da vicino a quelli che un tempo erano i cosiddetti «repubblicani moderati ». La «rivoluzione politica» sollecitata, giustamente, da Bernie Sanders non sarebbe stata così rivoluzionaria per Dwight Eisenhower. I repubblicani si sono talmente votati agli interessi dei ricchi e del settore industriale che le loro politiche non sono più in grado di attrarre consenso, cosicché si sono messi a mobilitare fasce della popolazione esistenti da sempre ma mai organizzate in un’alleanza politica: evangelicali, nativisti, razzisti e tutte le vittime di quella forma di globalizzazione progettata per mettere in competizione tra loro i lavoratori di tutto il mondo, tutelando al contempo i privilegiati e minando alla base le regole giuridiche e di altro tipo che garantivano alla classe lavoratrice una certa salvaguardia e una certa influenza sul processo decisionale in settori pubblici e privati un tempo fortemente connessi, in primo luogo mediante sindacati efficienti. L’esito di questo processo lo abbiamo visto durante le primarie repubblicane degli ultimi anni. Tutti i candidati emersi dalla base – penso a Michele Bachmann, a Herman Cain o a Rick Santorum – erano così estremisti che la dirigenza repubblicana ha dovuto sfoderare tutte le sue armi per metterli a tacere. Il fatto, però, è che nel 2016 i vertici di partito non ci sono riusciti, con loro sommo rammarico, come abbiamo visto. A torto o a ragione, la Clinton è diventata l’emblema di quelle politiche tanto odiate e temute, mentre in Trump la gente ha visto il simbolo del «cambiamento»; per capire di quale cambiamento si tratti occorrerebbe uno sguardo attento alle sue proposte nel concreto, cosa che non è arrivata all’opinione pubblica. Tratto distintivo della campagna elettorale è stato proprio il fatto di evitare il confronto sui contenuti, e i media in generale si sono adeguati a questa regola, obbedendo al principio in base al quale la vera «obiettività» consiste nel riferire puntualmente quanto accade «nel palazzo» ma senza avventurarsi al di fuori di quella sfera.

Trump non possiede un’ideologia politica ben definita che lo guidi nelle questioni economiche, sociali e politiche, eppure ritroviamo evidenti tendenze autoritarie nella sua condotta. Ritieni quindi che ci sia del vero nelle affermazioni secondo cui Trump può rappresentare l’ascesa negli Stati Uniti di un «fascismo dal volto amico»?

Da molti anni metto in guardia, per iscritto e a voce, sul rischio che negli Usa si faccia strada un ideologo puro, carismatico, qualcuno che sfrutti la paura e la rabbia che covano da lungo tempo nella società e le dirotti dalle vere cause del malessere verso bersagli più vulnerabili. Potremmo davvero arrivare a quello che il sociologo Bertram Gross chiamava il «fascismo dal volto amico», in un’opera lungimirante di trentacinque anni fa. Ma ciò richiederebbe un ideologo puro, uno come Hitler, non qualcuno la cui unica ideologia sembra essere l’Ego. I rischi, tuttavia, sono presenti da molti anni, e forse sono ancor più tangibili alla luce delle forze che Trump ha liberato.