I morti non muoiono, i vivi non vivono: Jim Jarmusch ce lo dice senza mezzi termini. Nel suo nuovo film (che apre in Concorso Cannes 72) tutto sommato il mondo non c’è più e Centerville – a real nice place di 738 anime) non è certo Paterson, che grondava Storia e storie da ogni mattone: qui il passato sembra già annullato in un tempo fuori dal tempo, che scansa i ricordi nella ritualità dei luoghi topici di una provincia americana inchiodata come fosse il fondale di un set horror: la stazione di polizia, lo store, la gas station, il bar con le cameriere che servono caffé, i viali alberati e il cimitero con le lapidi, pronto a risputare dalla terra i morti viventi. Jim Jarmusch torna sull’horror dopo Solo gli amanti sopravvivono ma lo iscrive nel segno dell’eternità della morte, niente vampiri amanti ma zombi deambulanti, frammenti in decomposizione di una narrazione per figure canoniche che nel suo cinema ha da sempre praticato. In questo mondo, un qualche Trump a venire ha autorizzato un’operazione fracking dei ghiacci polari che ha disallineato l’asse terrestre, sicché il tempo s’è fermato, il giorno e la notte non si succedono come al solito, la luna presenta un’aura inquietante e gli zombi sbucano dalla terra… I primi due sono figure jarmuschane pure: Sara Driver e Iggy Pop, assetati di coffee come nemmeno lo stesso Iggy Pop e Tom Waits in Coffee and Cigaretes…
A Centerville c’è anche Tom Waits, ovviamente, ma lui non è né un morto vivente né un vivo morente, è Heremit Bob, l’eremita barbone che s’è tirato per tempo fuori dai giochi e vive nel bosco, da solo, scrutando la vita da lontano con suo vecchio binocolo dalle lenti incrinate. All’amico Tom, Jarmusch risparmia sia la vita astratta degli uomini, che quella ritornante degli zombi: lo tiene fuori come un genius loci di un luogo che di spirito non ne ha più. Ne sa qualcosa il suo contraltare istituzionale, il vecchio Bill Murray, che è lo sceriffo Robertson, lunare custode di Centerville assieme al suo vice, Adam Driver, che ovviamente si chiama Peterson (con la e…). Insieme i due pattugliano le strade in principio tranquille, che poi d’improvviso si popolano sempre più di famelici zombi. I quali, decomposizione a parte non sembrano poi tanto più morti dei vivi che aggrediscono. E sono zombi romeriani veri e propri, lenti e cadenti, dolci e affamati, e soprattutto malinconicamente portati a tornare nei posti in cui hanno vissuto, a perpetrare le ossessioni che hanno nutrito: caffé, chitarre, smartphone accesi nel buio della notte, stazioni di rifornimento… Jarmusch ha un modo tutto suo per mostrarceli, come fossero esalazioni di una Spoon River disillusa, epitaffi distratti di una vita che non hanno mai vissuto davvero. C’è dolore, in questo film, come non ce n’è mai stato in nessun altro film di Jarmusch: senti che ci lascia una traccia amara, non riesce a dissimularla nel lirismo disfunzionale tipico delle sue immagini. Tutto resta attaccato al desiderio di una vita che non c’è mai stata davvero e l’apocalisse che ci rappresenta non è meno tragica di quella ben più truculenta di Romero: dove c’è meno sangue c’è meno vita.