Porto di Manaus, le edificazioni di container si ergono alle spalle di Justino, indio quarantacinquenne che sta nella notte del porto industriale, col suo casco in testa, fermo ad ascoltare l’antico passato che gli scorre nelle vene. La casa che ha costruito alla periferia della città, nel quartiere che sta a ridosso della foresta in cui la sua gente ha vissuto, è ogni sera l’approdo che raggiunge dopo un lungo tragitto, in bus e a piedi. Nel fitto degli alberi lui sente qualcosa che si muove e alla radio si parla di una belva feroce che si aggira per il quartiere. Nel suoi sogni lui si vede come predatore e preda, in una estraniata identificazione con quello spirito selvaggio ormai inurbato che cova in sé, un po’ come la febbre che non va via dal suo corpo e che diventa l’indice di riferimento di A febre primo lungometraggio della filmmaker e artista brasiliana Maya Da-Rin, in Concorso a Locarno 72. Progetto a lungo coltivato (dal Torino Filmlab all’Hubert Bals Fund), il film è perfettamente coerente con la ricerca della regista, che da sempre lavora sullo spazio di contatto tra la scena naturale e quella umana, scandendo proprio la dimensione fisica degli ambienti e la loro connessione con il punto di vista della figure che vivono in essi: Teras del 2009 lavorava sul concetto di confine, l’installazione Horizonte dos eventos insisteva sul panorama di Marsiglia, Margem stazionava sul Rio delle Amazzoni…
Del resto i suoi studi all’atelier Le Fresnoy non possono che aver acuito questa sua attitudine e il punto di arrivo offerto da A febre ne è la conseguenza. Forse ci si sarebbe attesi una maggiore capacità di intrusione nello spazio che sceglie di raccontare, una più intensa immersione nell’ambiente esistenziale del suo protagonista, laddove il film resta più distante, aggrappato all’osservazione del suo vissuto distonico. Justino, che è interpretato da Règis Myrupu, un vero indio al suo primo ruolo, è un corpo estraneo che si sta ritirando nel proprio spirito, quasi abbandonando la sua presenza fisica in quella città che non sente: la morte della moglie l’ha lasciato solo con la figlia, Vanessa, che fa l’infermiera e sta per recarsi a Brasilia per studiare medicina all’università. Il figlio maschio è ormai andato a lavorare lontano e il fratello maggiore gli fa visita, con la moglie, solo di rado. Al lavoro gli rimproverano la sua distrazione e la figlia cerca di farlo curare. Il tutto si svolge con la quieta ritmica degli eventi che accadono quotidianamente, unica eccezione la presenza incombente della bestia selvatica che si aggira nei paraggi. Non che Maya Da-Rin ne faccia un elemento determinante nella messa in scena, che poi si trattiene nello spazio di un approccio antropologico ormai catalogato: il senso di estraniazione delle popolazioni indigene applicato alla freddezza delle metropoli industriali in cui si ritrovano a lavorare. La spinta narrativa si impossessa in maniera quieta di un film che nelle corde della regista sarebbe stato di sicuro piu efficace se declinato in chiave osservativa.