All’origine c’è il cinema marginal brasiliano, di cui Sofa costituisce una scheggia autentica, sfuggita al flusso del tempo passato per calarsi nella contemporaneità: che è quella degli espropri nelle favelas di Rio per la realizzazione delle strutture per i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016. Proprio a causa di una di queste coercizioni, la protagonista Joana ha perso tutto. Le è rimasto soltanto un sofà, appunto, ripescato dal mare in una visione quasi fantasy a metà tra Excalibur e Il mago di Oz e che da quel momento diventerà il suo tesoro da proteggere e l’ancora di salvezza nel percorso per riavere la propria terra. Presentato nella sezione Onde del Torino Film Festival, il film di Bruno Safadi (già allievo e produttore di Julio Bressane) dialoga apertamente con il cinema contemporaneo che più è interessato all’identità dei suoi personaggi in rapporto allo spazio e al tempo (viene in mente anche Vitalina Varela di Pedro Costa, visto negli stessi giorni sotto la Mole). Sono anime in cerca di un luogo perduto, per ritrovare il quale devono attraversare altre realtà, all’interno di un mondo frammentato e reso perciò attraverso ritagli di giornale sparsi letteralmente sull’inquadratura a formare dei mosaici di grande resa espressiva, che contrappuntano il racconto.
Nella ricerca spasmodica del proprio sé, Joana è aiutata non a caso da un altro marginal, il giovane pescatore e pirata Pharao, uno di quei ragazzi che attraversano il mondo senza mai avere avuto una guida. Sarà lei, ex insegnante, a fargli imparare perciò l’alfabeto e la scrittura e in quel momento la buffa fuga con divano accluso diventerà un primo nucleo di una società da rifondare. Il sofà assume per questo la caratura di oggetto-mondo nel mescolare le esperienze di due personaggi agli antipodi: lui, immerso nella vita, inconsapevole ma presente al tempo e lei, sbalzata nel reale dopo anni di studi, ma ugualmente etichettata come “testa dura”. La triangolazione uomo/donna/divano descrive perciò l’importanza dell’appartenere: non già mero possesso fisico, ma capacità di trasfigurare gli oggetti, elevandoli a testimoni di una memoria e una vita. Perciò il percorso di Joana e Pharao non può essere scisso da quel sofà che rappresenta la stabilità del passato, mentre il loro legame viene cementato dall’alfabeto, scritto letteralmente sulla pelle. Sul versante opposto si pone invece il potere politico, mendace e inaffidabile, perché incapace di definire realmente una condizione identitaria. La ricerca dei personaggi diventa così il grimaldello attraverso cui Safadi, memore del già citato cinema marginal, riflette anche il lavoro sul linguaggio filmico e sui generi. Sofa assume presto infatti i caratteri di un’avventura d’azione, con intrighi politici, scontri a fuoco, fughe rocambolesche, ancora più esaltanti nell’esibita scarsezza di mezzi propedeutica a definire il perimetro di un cinema underground. Mentre siamo lì ad appassionarci per questa storia, dunque, il film assume contorni debordanti e si reinventa costantemente attraverso viraggi, capovolgimenti e i già citati inserti-collage fotografici: la sensazione è che ogni inquadratura lotti per mantenere una sua identità all’interno di un fluire incessante di luoghi e situazioni che disegnano il percorso epico dei protagonisti. D’altra parte, Safadi è sincero fin dal principio nel ribadire come questa storia così politica e calata nella realtà del suo tempo, sia anche un forte esercizio di narrazione: la cornice infatti, consegna l’intera vicenda al libro che Pharao scriverà per ricordare la storia di Joana. Un volume che per il giovane, ancora una volta, stabilirà un’appartenenza: quella della donna alla sua vita, cementata dal possesso finale della forma scritta.