In Francia la procedura inquisitoria reclama dai giurati un’intima convinzione, formula simmetrica e opposta del “ragionevole dubbio” richiesto nei paesi anglosassoni, qualcosa che fa leva sulle impressioni, come si legge nell’Articolo 353 del codice di procedure penale: «La legge non chiede conto ai giurati dei mezzi attraverso i quali si sono convinti […]. Prescrive loro di interrogarsi da soli nel silenzio e nel raccoglimento e di cercare nella sincerità della loro coscienza che impressione hanno lasciato sul loro giudizio le prove riportate contro l’accusato, e i mezzi della sua difesa». L’intima convinzione è quindi un sentimento. Ed è precisamente ciò che Antoine Raimbault ha voluto raccontare nel suo primo lungometraggio Una intima convinzione, film tanto attento a rispettare le regole del genere giudiziario con asciuttezza e determinazione, quanto a sovvertirle con precisione. Mettendo in scena la voragine ossessiva che colpisce Nora (Marina Foïs), personaggio spigoloso e sfuggente, principale punto di vista della finzione sulla realtà del caso Viguier, Raimbault conduce lo spettatore nell’incubo delle disfunzioni della giustizia francese avanzando domande e dubbi più che risposte e convinzioni. Nora ha presenziato al processo di Jacques Viguier (Laurent Lucas), accusato dell’omicidio di sua moglie, ed è tuttora convinta della sua innocenza. Temendo un errore giudiziario, convince un principe del foro, il ruvido avvocato Dupond-Moretti (Olivier Gourmet), ad assumere la sua difesa nel processo d’appello.
Il tunnel attraversato da Nora (personaggio della finzione, unico inventato in fase di scrittura), cuoca di Tolosa che s’improvvisa detective e trascura il figlio, l’amante e il lavoro è la rappresentazione di quello affrontato da Raimbault quando ha seguito in prima persona il processo di Tolosa: «Là ho scoperto, al tempo stesso, la giustizia del mio Paese e il calvario di quella famiglia»; è un tunnel simbolico a cui corrisponde il buio di certe sequenze, l’oscurità di alcune inquadrature, l’inquietudine espressa dalla soffocante frenesia di certi passaggi cesellati dal montaggio. Qualcosa che punta alla rappresentazione della complessità drammatica della macchina giudiziaria, capace di rendere vittime anche coloro che lottano per tutelarla, in nome di una verità da scovare dietro comode apparenze ma pure un elemento più recondito, costituito da ombre e angosce di hitchcockiana memoria. Non casualmente Il ladro e La signora scompare sono i due titoli citati durante il processo a ribadire che il senso dell’operazione non può essere che incastonato lì, nelle pieghe infernali e liberatrici del dubbio, guida e minaccia del pensiero.
Per queste ragioni ma anche per come tratta una valida e attuale riflessione sulla manipolazione della verità da parte dei media, il film di Raimbault rovescia le tipiche dinamiche da film giudiziario americano. Come dichiarato dallo stesso regista: «In un film americano l’idea motrice è che la verità emergerà dal confronto di due verità grazie all’innesco dei codici giudiziari americani: interrogatorio, controinterrogatorio, “obiezione, vostro onore”, il primo piano sulla goccia di sudore del testimone di fronte alla folla. Qui, niente di tutto ciò. I testimoni depongono dando le spalle al pubblico, mantenendo un rapporto privilegiato con il presidente che è, al contempo, giudice e arbitro: coinvolge l’aula, porta gli stessi abiti dell’accusa, guida i suoi giurati fin nella sala delle deliberazioni». In tal modo, il film di Raimbault non solo si fa modello di un nuovo genere giudiziario ma anche offre una prospettiva insolita che reinterroga il reale mostrando la giustizia a distanza ravvicinata. A tal proposito Raimbault precisa: «Perché è facile definire un colpevole a partire dai sentimenti e dalle fantasie, perché la natura ha orrore del vuoto, perché giustizia deve essere fatta e serve un colpevole, non si può fare altro che crearsi un’intima convinzione. Si narra una verità che sembra logica, razionale, soddisfacente e definitiva. E poco importa che altri dubitino, poco importa l’assenza di prove; una volta insinuatasi, la convinzione prevale su tutto. Il film affronta precisamente questo meccanismo oscuro: il dominio della convinzione sulla ragione». Pur rispettando scrupolosamente ciò che è stato detto nelle udienze e nelle intercettazioni telefoniche e insistendo sul fatto che in assenza di prove, la verità giudiziaria si è essenzialmente basata sulle voci e le calunnie, il nucleo di Una intima convinzione pare trovarsi nelle maglie del rapporto tra Nora e Dupond-Moretti. Nora è un giustiziere ma anche uno specchio in cui ciascuno spettatore può confrontarsi sul pericolo delle proprie certezze. Perché qui si racconta la storia di qualcuno che finisce per diventare ciò che pensava di combattere. Lo scandisce perfettamente lo sguardo smarrito di Nora nel finale del film: non le rimane più niente, soltanto il vuoto. O, forse, l’ammissione del proprio limite umano.