La pioggia che cade violenta su Costantino nella notte che apre Assandira appiana ogni cosa, come fosse un giudizio equanime su una storia che di definitivo ha solo le macerie e le carcasse affumicate che quell’acqua sta bagnando. Ancora non lo sappiamo, ma quella pioggia è il controcampo pietoso alle fiamme che hanno arso l’agriturismo che Mario Saru e la sua moglie tedesca, Grete, hanno costruito sulla terra del vecchio padre, Costantino. L’acqua e il fuoco, che contengono come due parentesi contrapposte Assandira, danno già la misura di un film che Salvatore Mereu ha costruito come una tragedia antica, in cui è proprio il contrasto a dettare la regola morale. C’è un vecchio uomo, che parla una lingua antica e vive in una terra da sempre posseduta, pronto ad accogliere il ritorno a casa del figlio con una moglie straniera e con idee a lui estranee: fare della sua casa, delle sue bestie e di lui stesso un’attrazione per turisti stranieri. Un agriturismo, lo chiamano, dove il vecchio Costantino e l’intera sua fattoria devono interpretare l’arcaico universo in armonia di terra, bestie e uomini per gli occhi dei pagani (paganti) venuti da lontano. La storia e il suo scenario, però, li scopriamo un po’ per volta, mentre sgorgano dal silenzio testardo di Costantino un po’ come memoria e un po’ come testimonianza, offerta al pietoso magistrato che sta cercando di ricostruire i fatti legati a quell’incendio, in cui il vecchio ha perso suo figlio.

La scelta di Mereu di collocarsi lì, nell’atto finale della tragedia, sospeso tra il dolore e la verità che attanaglia il silenzio di Costantino, è il punto d’equilibrio morale di Assandira. Offre al film la possibilità di essere giusto e spietato allo stesso tempo, esattamente come quel magistrato (personaggio riuscitissimo, interpretato ottimamente da Corrado Giannetti) che si aggira compassionevole tra i silenzi reticenti del vecchio. La storia che Mereu racconta è indecisa se stare dalla parte netta della testimonianza offerta in virtù di verità o dalla parte sfocata della memoria strappata al sentimento della menzogna. Una menzogna che non è tanto quella del vecchio padre, che piange il figlio morto tra le sue braccia e non pensa un solo attimo a celare la verità per salvare se stesso, ma solo pe
r salvare la memoria di un figlio colpevole di essersi allontanato troppo da lui. La menzogna su cui si edifica la tragedia è quella della contemporaneità, di un tempo che tradisce la concretezza del passato in onore della falsità del presente. Perché questo è evidentemente un film che (in maniera se vogliamo anche un po’ didascalica) sul contrasto tra passato e presente è costruito: la struttura a flashback scelta da Mereu tiene la linea narrativa di una verità inesatta, in cui la colpa del figlio ricade su quella del padre e l’innocenza è la dimensione astratta di una condizione che ormai si può solo mettere in scena per i turisti. Assandira, che Mereu ha liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni (Sellerio), è un film che gira in cerchio attorno alle macerie: statico nel suo disvelamento occlusivo di una verità che sappiamo da subito, sfuggente nel suo attaccamento a una tradizione degradata che diventa la colpa da redimere, nitido nella sua idea di applicarsi a personaggi che interpretano fatalmente se stessi. A partire dal magnifico Gavino Ledda, messo lì a fare il padre troppo poco padrone di un figlio sfuggito alla sua identità.


