È un film che tiene insieme molti vettori, Mondocane (a Venezia78 per la SIC e già in sala), primo lungo di Alessandro Celli, joint venture produttiva tra l’approccio pulp di Minerva Pictures e quello più performativo e trasversale rispetto ai generi di Groenlandia di Rovere e Sibilia. C’è il desiderio di raccontare un coming of age affidato a un’umanità derelitta, c’è la voglia di riattivare un immaginario distopico carpenteriano sospeso su una città divisa per bande e perimetri di sicurezza, c’è l’istinto dinamico del noir italico che disegna caratteri borderline tra giustizia e criminalità, c’è persino l’ombra di una matrice realistica (filone desichiano zavattiniano…) che applica pulsioni drammatiche allo realtà dei perdenti… E sullo sfondo c’è una città come Taranto, col suo siderurgico aggrappato sulle spalle dei quartieri più poveri, che si offre come scenario perfetto per una deviazione distopica del presente prossimo venturo: l’inquinamento, lo sfruttamento, la miseria e la morte recintati nelle zone ad alto rischio ambientale e sociale, dove la polizia non mette piede e dove due bande si contendono il potere; e la parte ricca e vitale della città che sta separata e sazia sulle sue spiagge, nelle vie del centro, nel sole non oscurato dai fumi delle ciminiere. La cosa più bella di Mondocane è proprio questa sua natura ibrida anche rispetto alla progettualità narrativa da cui nasce, la capacità di farsi contaminare da più istinti estetici e stilistici per raccontare una città profondamente contaminata come Taranto.
Che poi viene offerta come spazio quasi astratto, con le ciminiere del siderurgico che si stagliano sullo sfondo e poi un reticolo di scenari postindustriali che contengono le bande dickensiane di ragazzini orfani sfruttati e controllati da Testacalda, il capo delle Formiche, che è un Alessandro Borghi con baffoni e cranio rasato, anche lui strano figuro dolce e violento, in bilico tra un padre e un aguzzino. I protagonisti sono due orfani, cresciuti insieme e inseparabili, come fossero Pasquale e Giuseppe di Sciuscià ma senza cavallo bianco: il loro obiettivo è entrare nella banda delle Formiche e alla fine ci riescono, grazie a una prodezza del più buono dei due, un biondino attento e sensibile che Testacalda battezzerà Mondocane. È lui a fare da viatico per l’accettazione anche di quello che verrà chiamato Pisciasotto, stigma che si porta dietro perché sembra più debole e soffre di crisi epilettiche. La loro avventura non è che all’inizio, perché i ruoli sono destinati a invertirsi, i legami a spezzarsi, i rapporti di potere si faranno sentire e tra l’amore e l’amicizia non tutto filerà. In questo gioco di accumulo, sorretto da una sceneggiatura che non sempre trova i giusti contrappesi e qua e là risolve con una certa disinvoltura alcuni passaggi, si impone sempre una visione netta e precisa di Alessandro Celli, che trae spunto anzitutto dall’idea azzeccata di tenere il film in bilico su un tempo indefinito, un po’ passato un po’ futuro, mai davvero presente, come fossimo sospesi in un universo fantasy calato nella realtà astratta di una città che si offre come scenario forte e imponente, ma mai come realtà concreta, attuale. L’idea stessa di usare prevalentemente attori non professionisti, di far recitare in dialetto tarantino stretto, di affidarsi a due giovani protagonisti che tengono il gioco scenico con semplicità, risulta coraggiosa di quel coraggio che appartiene a una certa tradizione popolare del nostro cinema di genere. E poi c’è l’ibridazione morale dei personaggi, un po’ tutti né totalmente buoni né davvero cattivi, che è qualcosa di più di ciò che si usa fare nella narrativa per ragazzi, ma attinge a un approccio chiaroscurale dell’universo posto in essere che appare interessante e prolifico. Mondocane è insomma uno di quei film che sembrano nascere ben classificati ma riescono infine a svincolarsi dagli schemi precostituiti, trovando una loro autenticità e una loro identità.