L’inizio dice tutto del percorso in salita e difficoltoso che dovranno compiere i protagonisti di Un eroe e dei mille ostacoli che dovrà superare la narrazione stessa. Il quarantenne Rahmin esce di prigione grazie ad un permesso. Sconta la pena per non aver ripagato un debito, ma ora sembra avere una soluzione per lasciarsi alle spalle il passato. Arrivato al monumentale sito archeologico di Marvdasht (la tomba di Serse), sale di corsa i mille scalini dell’impalcatura che lo porteranno in una piccola grotta dove lavora il cognato. È salito lassù per enunciare il suo progetto di riscatto, pagare i debili e uscire di prigione. Il resto del film si svolgerà interamente nella vicina città di Shiraz, tra case, strade e negozi, ma in questa corsa verticale c’è già tutta la rappresentazione dei molti livelli entro cui si svolgerà il film. Ancora una volta Ashgar Farhadi si interroga sui diversi volti della verità. O meglio, si mette in cerca delle verità del quotidiano, interrogando tacitamente le parole e i gesti dei suoi protagonisti, mostrandoli semplicemente nel loro inconsapevole inciampare. E Rahim, con il suo sorriso ebete, si lascia sopraffare da questo plurale, senza mai capire fino in fondo che sta giocando una partita a domino, in cui tutte le tessere sono destinate a cadere. Azione e reazione.
Quando la fidanzata di Rahim trova una borsa con 17 monete d’oro i due decidono di rivenderle e pagare con il ricavato oltre metà del debito, ma qualcosa fa cambiare idea all’uomo, che intende restituirle al legittimo proprietario. Un gesto che innesca reazioni a catena inimmaginabili, portando di nuovo il protagonista dalla rispettabilità (gli vengono fatte interviste televisive e riceve anche una dichiarazione di merito incorniciata) al precipizio del disonore. Perché quando il sospetto si insinua in una storia, ne erode lentamente ogni certezza, ne divora il cuore lasciando sparsi rimasugli di verità distorte. I dettagli sono importanti in questo film costruito da Farhadi come fosse un congegno ad orologeria. Prende a prestito la struttura più classica del thriller, inserendoci storie e microstorie di vita quotidiana, famiglie a loro modo allargate con personaggi capaci di scoprirsi sempre più misteriosi, inquadratura dopo inquadratura. Perché l’ombra, come il velo nero di una donna, inizia ad avvolgere quella che sembrava una storia semplice, via via che affiorano particolari, la verità si frantuma e si disgrega ogni evidenza.
Il bene e il male perdono la certezza di una definizione univoca. Chi è buono e chi cattivo (anche se sarebbe il caso di parlare di eroe e antieroe)? Rahim, che per un errore di valutazione non ha potuto restituire il denaro preso in prestito, o il suo creditore, irremovibile nel non concedere sconti? Farhadi va fino in fondo compiendo un vero e proprio giro di 360° attorno a tutti i personaggi di un film quasi corale, compresi attanti fuori campo che restano senza volto, ma sanno modificare profondamente il corso degli eventi. Si sofferma come un entomologo proprio sulle ragioni ultime dei comportamenti, perché dietro ognuno di essi può annidarsi una volontà di manipolazione. Un gioco di scatole cinesi infinito, di specchi che si riflettono in lunga successione. E quello che si scopre è, infine, che la verità assoluta non esiste nella società degli uomini e molti sono gli accidenti che concorrono a modificare il modo in cui li percepiamo. Proprio come il volto a metà del protagonista.