Un film che dà l’opportunità di sognare e allo stesso tempo la possibilità di svegliarci: la motivazione con cui la giuria del Tiger Award di Rotterdam 2022 (che si sta svolgendo online in questi giorni) ha premiato Eami esprime bene la duplice qualità di questo quarto film della regista paraguaiana Paz Encina. La presa d’atto è quella di un documentario mirato a raccontare la condizione degli Ayoreo-Totobiegosode del Paraguay, il popolo che vive nella foresta del Chaco, quella segnata dal più rapido tasso di deforestazione al mondo. Ma la narrazione si basa tutta sul vissuto di espropriazione di questa gente elaborato attraverso i loro miti, in cui danno forma astratta a un dramma terribilmente reale, iniziato negli anni ’40 del secolo scorso, con l’arrivo di quei bianchi che le loro narrazioni chiamano “coñone”, ovvero insensibili ma anche sconsiderati, privi di discernimento. L’incipit, in cui per alcuni lunghi minuti contempliamo nel cuore della foresta una covata posata sulla cenere spazzata da folate di vento, offre l’imprinting di un film che sulla durata del tempo costruisce la sua linea narrativa, declinandola nella resa quasi astratta, eppure concretissima, del dramma di espropriazione e dispersione che questa antica e semplice popolazione ha subito. Eami che dà il titolo al film, è una ragazzina ayoreo che incarna nel suo malessere quello di Asojá, la divinità donna-uccello che porta con sé la memoria del suo popolo.
Mentre il vecchio del villaggio cerca di esorcizzare il suo male, la ragazzina diventa una figura vaga, che attraversa come uno spirito la foresta assumendo in sé il trasfert che rievoca la dispersione del suo popolo, lo scontro con la violenza dei bianchi, il dolore per uno smarrimento che lascia la sua gente senza tempo per vivere. Paz Encina, che conosce bene quella popolazione, attraversa i vissuti di questo dramma con l’approccio di una documentarista che testimonia la caduta dello spirito di una terra, la dilapidazione identitaria di un popolo a lei molto caro. Ma l’approccio filmico è quello di un’antropologia poetica, per così dire, asciugata in una astrazione simbolica che si affida nel testo alla mitologia ayoreo e nelle immagini alla contemplazione di quella foresta che sta sparendo. Il tema della memoria che si incarna nella giovane sciamana è la trasposizione di un rapporto con la scansione della realtà che si muove liberamente tra passato presente e futuro, ovvero tra rievocazione, osservazione, denuncia e immaginazione. Il che non stupisce, se si considera ciò che dice la regista a proposito del suo rapporto con la dimensione temporale: “Ho imparato a leggere la musica prima di poter leggere qualsiasi altra cosa, quindi la mia comprensione del tempo è sempre stata poco lineare. Ho sempre pensato che più tempi potessero convivere, così per me il tema della memoria è qualcosa di strutturale, totalmente organico, fa parte della mia formazione” (Variety). Ipnotico ai limiti del sonnambolico, quasi colto in una trance che disperde la condizione senziente dello spettatore, come per connetterlo con la dimensione ancestrale dei miti indigeni, Eami è un film raro e rarefatto, in cui la testimonianza critica esalta proprio quella cultura della cui dispersione va dicendo.