(…) Il mondo è in quella terra di silenzi addolorati, ed io vivo col sale del tuo pianto.
(Franco Costabile, poeta, 1924-1965)
I riti di morte si celebrano su palcoscenici deserti. Francesco Costabile, regista di Una femmina, liberamente ispirato al libro Fimmine ribelli di Lirio Abbate, in cartellone nella selezione di Panorama alla recente edizione del festival di Berlino, sceglie per questo suo esordio alla regia – dopo molte collaborazioni tra le quali spiccano quelle con Gianni Amelio per Felice chi è diverso e Carmine Amoroso per Porno e libertà – una storia ambientata in un sud archetipico, quasi spoglio di ogni riferimento estraneo a quello del paesaggio, della solitudine dei luoghi e di un’ambientazione, dunque, tutta consumata all’interno dell’idea precisa di rappresentazione. In altre parole Costabile pare lavorare dentro un mondo appositamente costruito, per nulla consueto, nonostante tutto il cinema che sia passato anche sui luoghi di una Calabria per lo più sconosciuta e che abbia raccontato, più o meno maldestramente, il dramma, o meglio la tragedia, della malavita organizzata. Ma Una femmina sembra avere altri intenti e, forse, ci si trova davanti ad un racconto, che pur partendo da uno o più dei tanti fatti di cronaca nei quali si legge del coraggio femminile che fa il paio con le qualità altrettanto femminili di sapere guidare un clan mafioso, sa farsi vero scenario di quella coraggiosa opposizione alla struttura intima della ‘ndrangheta calabrese. Come ci insegnano i sociologi, o la magistratura o i giornalisti con le loro indagini, questa si fonda soprattutto sulla solidità dei legami familiari, di sangue, con la capacità di proliferare proprio attraverso la concezione di alleanze che si stringono anche con il matrimonio, come accadeva per le dinastie regali europee a partire dall’alto medio evo e fino, forse, ai nostri giorni.
Rosa, che ha perso la madre Cetta, uccisa dai suoi stessi familiari perché si opponeva alle loro imposizioni che obbedivano alle regole non scritte della ‘ndrangheta, continuerà a vivere in quella famiglia, con la nonna complice e lo zio despota e violento. Rosa sarà la spina nel fianco di questa famiglia e il suo destino, e quello del suo innamorato, sarà il prezzo da pagare per la loro diversità. Aleggia su tutto il film un forte sentimento di morte, di cupezza sin dall’incipit onirico che svela gli antefatti e l’origine della protagonista e soprattutto del suo odio verso quella famiglia, odio che Rosa coltiva con la sapienza di chi sa che si consumerà con la vendetta. È proprio dentro questi sentimenti dalla forma e dal contenuto negativi che il film di Costabile sa trarre una straordinaria forza centripeta, che sembra riavvolgere l’intera vicenda dentro le stesse regole di rappresentazione e cronachistiche nella quale l’intera tragedia si consuma e, al contempo, sa costruire attraverso le forme dello spettacolo, un palcoscenico per nulla ovvio, in equilibrio tra un realismo accentuato dalla asprezza naturale dei luoghi e l’asciutta messa in scena, che sembra astrarre la storia da ogni contesto per farla diventare universale. La Calabria e i monti del Pollino che ospitano i paesi sembrano denaturalizzati e astratti da ogni contesto, sanno diventare luogo universale e scenario adeguato della tormentata vita di Rosa. Complice in questo lavoro è il valore attribuito alle immagini laddove l’uso raffinato della macchina da presa sa diventare protagonista della scena e vero occhio indagatore dei fatti. C’è dell’invenzione e non la semplice narrazione, c’è partecipazione e non distanza, ed è per questo che Una femmina diventa corpo vivo volto a guardare la freddezza della morte.
È forse proprio nel lavoro sugli scenari, la solitudine del borgo dentro il quale Rosa cresce e conosce la vita, che si rivela l’originale forma narrativa ed è così che il luoghi, smettendo di diventare analisi sociologica di un meridione spopolato e incapace di rigenerarsi, sanno, invece, diventare lo scenario spoglio e impoverito di una storia che forse non è mai accaduta, ma che accade migliaia di volte in ogni violenza familiare che si consuma e che genera odio, sangue e inconsumabile livore. È su queste strutture, che appartengono prima alla rappresentazione di un’idea in forma d’arte e poi sui caratteri e sulla vicenda legata alla cronaca quotidiana, che il film di Costabile centra il suo obiettivo. È questo il lavoro di rielaborazione che si richiede ad un regista che voglia restituire – nella forma comunque dello spettacolo, perché questo è il cinema – anche un’idea di appartenenza o non appartenenza e questo lavoro. Costabile lo ha fatto. Ha potuto farlo con l’aiuto di un cast di rispetto nel quale spicca la immancabile presenza di Fabrizio Ferracane, Salvatore, diventato attore simbolo di un meridione che afferma una sua tradizione attoriale, lo stesso Ferracane che vediamo in questi giorni sugli schermi con Leonora di Paolo Taviani; con Lina Siciliano, una Rosa determinata e di carattere, come i suoi stessi tratti somatici appartenenti ad un archetipo che sottolinea la forza di un carattere e una sensualità segreta e oscurata; con Anna Maria De Luca, la nonna Berta quasi capoclan, che sa trattenere in una durezza espressiva ogni sentimento represso per la figlia assassinata e la nipote che nutre per lei un invincibile odio; e Cetta nei cui panni la promettente Francesca Ritrovato restituisce la purezza che si riversa nelle perle degli orecchini che la figlia Rosa, per perpetuarne la memoria, indosserà fino al giorno del matrimonio; Luca Massaro nei panni del disturbato Natale cugino di Rosa, segno di una corruzione genetica dei codici mafiosi.
In Una femmina si consumano i riti, come l’evocativa processione del finale, ma sono riti di morte, tutti. Riti che fanno il paio con la stessa ritualità delle parole e dei discorsi del cristologico capo bastone locale, che resta affascinato dalla sensualità di Rosa e dal sangue sparso per la vendetta. Tutto nella concezione mafiosa diventa rito e dopo Gomorra anche gli spettatori più refrattari hanno sicuramente imparato a capirlo. Una femmina non si sottrae a questa tradizione e si riconosce nella ritualità familiare, nella preghiera religiosa, ma blasfema per chi pratica la violenza, nel rispetto come unica forma di sottomissione, nell’omicidio che si sottomette a sua volta alla necessità di una sua lettura postuma e quindi consumato anch’esso nella ritualità del gesto. Non è l’estetica gomorriana è la rappresentazione dell’estetica malavitosa che viene raccontata. Costabile con questo suo film povero di orpelli, spogliato da ogni ruffiana volontà di giustificare, sa raccontare su questi palcoscenici deserti e desertificati da ogni buona volontà, astratti da ogni contesto puramente realistico, i riti di morte, la violenza, i legami di sangue e l’odio che scorre silenzioso negli occhi dei suoi protagonisti.