«Niente di ciò che riguarda l’infanzia è banale»
(F. Truffaut)
Ci sono un paio di finte soggettive curiose e molto marcate, sul finire del film, quando Ugyen si reca da Saldon per un ultimo saluto: mentre lei spiega perché i bambini sentiranno la mancanza del loro maestro, lui guarda le mani della ragazza accarezzare nervosamente la staccionata che materialmente li separa. Inoltre lei, con la testa inclinata, appare imbarazzata, vulnerabile allo sguardo dell’altro. Dura un istante ma il film è tutto qui, nella complessità di un sentimento atteso, delicato e gentile. Le brevi soggettive restituiscono la forza del tempo e del silenzio, anticipano la nostalgia e interpellano lo spettatore a fare i conti con un’immagine rivelatoria di una fitta trama affettiva che coincide con lo sguardo di Saldon perché, in realtà, la ragazza sta parlando anche di sé, di quello che sta pensando e di quello che proverà: le mancherà la voce di Ugyen. Opera prima di Pawo Choyning Dorji, qui anche in veste di sceneggiatore, regista del Regno del Bhutan già assistente di Khyentse Norbu (artista e filmmaker in ambito buddhista molto rispettato per i suoi insegnamenti e scritti), Lunana – Il villaggio alla fine del mondo racconta la vicenda di un giovane insegnante del Bhutan moderno, Ugyen, che sogna di andare in Australia per diventare un cantante trascurando i suoi doveri. Rimproverato dai suoi superiori viene spedito nella scuola più remota del mondo, in un villaggio chiamato Lunana, per completare il suo servizio. Esiliato dalle sue comodità occidentalizzate affronterà lo scoraggiante compito di insegnare ai bambini del villaggio senza alcuno strumento didattico a disposizione. Quella che inizialmente per lui sembra essere una sfida insuperabile, progressivamente si trasforma in una straordinaria opportunità di crescita, tanto da sentirsi cambiato grazie alla straordinaria forza spirituale degli abitanti del villaggio.
Pur essendo molto materico, fatto con gli odori e i sapori, con le cose che servono e con quelle inutili, come la carta (prestigiosa, certo, proprio per questo qui utilizzata come alternativa del vetro) o lo sterco di yak (diffuso e utilissimo per le faccende quotidiane), il film compie un’indagine sulla felicità umana e interpella lo spettatore soprattutto attraverso la sua tensione spirituale, riflesso di una dimensione naturale imperscrutabile segnata dalla presenza grave e impetuosa delle montagne. D’altra parte Lunana significa letteralmente “valle oscura” e, non a caso, il villaggio è un insediamento situato lungo i ghiacciai dell’Himalaya, accessibile solo attraverso un trekking di 8 giorni su alcune delle montagne più alte del mondo. Il villaggio è isolato dal resto del mondo, situato a 4800 metri di altitudine, accoglie 56 persone, la maggior parte delle quali non ha mai visto il mondo fuori; una valle distante dalla modernità, senza elettricità e collegamenti per la rete cellulare. Lunana diventa presto un’immagine mondo, un luogo dell’anima in cui Ugyen prima si perde e poi si ritrova in particolare grazie alla relazione vissuta con i bambini della scuola. Lui è un maestro, e si dice che i maestri toccano il futuro. In questa dinamica, l’ennesima che avvicina gli opposti, l’adulto e il bambino dialogano proprio sul futuro: guardano avanti, oltre, immaginano, credono in un altrove che ancora deve avverarsi ma lentamente si rivela. Al pari di Ugyen, a vivere emozioni rigeneranti grazie a questo viaggio è pure lo spettatore adulto che associa all’infanzia l’idea di purezza e soprattutto di innocenza: ridendo e piangendo di fronte allo spettacolo dell’infanzia, l’adulto s’intenerisce in realtà su se stesso, sulla sua innocenza perduta e si domanda cosa resti della sua immagine di felicità.