Coez ha ricominciato da Brescia la sua avventura live, destinata a toccare in seguito molte città italiane. La lontananza dai palchi dell’artista è durata due anni e mezzo: quando è scoppiata la pandemia, infatti, il pioniere dell’urban italiano era in pausa dai concerti, impegnato a gettare le primissime basi dell’album che sarebbe diventato Volare, dopo i bagni di folla rimediati con il tour promozionale di È sempre bello. Qualche anno fa Coez – al secolo Silvano Albanese, classe 1983 – ha individuato la formula giusta non solo per arrivare al cuore degli spettatori, ma per indicare una direzione che altri dopo di lui hanno imboccato: quella di un cantautorato rap dagli ingredienti calibrati, in cui lo stile crossover tra rappato e cantato poggia su un vocabolario ampio e una cura particolare (crescente album dopo album) per il sound. Una miscela alla quale è arrivato per gradi, secondo una traiettoria che ora pare all’apice, per qualità e maturità, come evidenzia proprio Volare, ellepì uscito a dicembre 2021. Repetita iuvant, sostenevano i romani (antichi). Quelli moderni, anche se d’adozione come Coez (nato a Nocera, cresciuto nella capitale) non lo dicono più, ma evidentemente ne riconoscono valore all’assunto. Motivo per cui Coez si è esibito prima in una discoteca a cui è affezionatissimo (il LattePiù), quindi – a distanza di soli dieci giorni – in un teatro ben più spazioso come il Morato, sempre a Brescia, testando dunque la tenuta dal vivo dell’ultimo lavoro in due contesti dimensionalmente assai differenti, sebbene con un pubblico in buona parte coincidente. Lo abbiamo intervistato.
Coez: a Brescia ha riavviato la stagione dei live, da cui è stato lontano due anni e mezzo. Il brutto è alle spalle?
La mia assenza dal palco è durata più dei lockdwon, perché quando è scoppiata la pandemia ero in pausa. Forse la faccenda Covid non è del tutto finita; ma quando sei sul palco e vedi la gente entusiasta, che ha un gran voglia di ballare e tornare alla normalità, succede che tendi a dimenticare ciò che abbiamo passato. La ripartenza è stata bella, finora tutto bene. E poi, diciamolo, questo giro ha un sapore speciale, lo affrontiamo con una foga diversa, un’urgenza particolare…
Passa dai disco-club ai teatri, con disinvoltura: cambiano repertorio e attitudine o resta tutto uguale?
Forse io e la mia band tendiamo a essere un po’ più punk nei club, ma per il resto non cambia nulla. Vogliamo far emergere la matrice black che questo disco porta impressa, perché penso da sempre che per un album non ci sia miglior promo di un concerto. Motivo per cui il primo giro di live è stato pensato per location più raccolte, per vederlo crescere un poco alla volta.
Il cantautorato rap pare un fenomeno soprattutto italiano. È conseguenza della nostra predisposizione alla melodia, che emerge sempre e comunque?
È un tema su cui mi è capitato di riflettere di recente. Sono giunto alla conclusione che in Italia, alla fine, ciò che conta davvero è sempre la canzone. Prendiamo Vasco, solo per esempio e non certo per fare paragoni impropri, visto che lui è uno di quelli che ha fatto la storia della musica nazionale: in principio, si tendeva a classificarlo come rocker, solo perché tra gli anni 70 e 80 tutti ascoltavano il rock, quando in realtà lui è molto di più di questo. Ciò che è rimasto, sono infatti le sue canzoni, alcune effettivamente rock, molte altre no. Ora, io penso che il rap assuma le caratteristiche dei luoghi in cui viene proposto: da noi (diversamente da quanto avviene negli States o in Inghilterra) si confronta necessariamente con la forma canzone, imprescindibile punto di riferimento, e questo lo rende anche popolare.
Quando guarda allo svolgersi del suo percorso, pensa che l’album della svolta sia Faccio un casino (2017), oppure si risale ancor più nel tempo, a Non erano fiori (2013)?
Se penso al successo e dunque alla svolta in senso economico, allora non c’è dubbio che la risposta giusta è Faccio un casino. Ma se il livello è quello artistico, andrei addirittura più indietro del 2013, all’ep Senza mani (2012), attraverso cui ho gettato le fondamenta per l’urban: magari la voce non era del tutto matura, ma il mio percorso attuale comincia senza dubbio da lì.
Per Volare ha scritto una trentina di pezzi, poi ne ha scelti dodici per la tracklist definitiva. Una cernita dolorosa?
No, nessun problema: è un processo di selezione che faccio sempre. Ritengo naturale comporre più di quanto mi servirà effettivamente. La ragione è che preferisco scegliere le tracce quando ho un’idea complessiva della direzione del disco, ma anche dopo aver appurato come rende una canzone nel passaggio dalla teoria alla pratica, dalla pagina allo studio di registrazione.
In ambito hip hop, i featuring e le collaborazioni sono una costante, quasi un marchio di fabbrica del genere. Nel suo ultimo album, spicca la collaborazione con Neffa, che presta la voce per l’intrigante Cerchi con il fumo. È l’omaggio a un collega che, con qualche anno d’anticipo, ha fatto il suo stesso percorso, dal rap al cantautorato?
Neffa è un grandissimo artista, che ha indubbiamente aperto una strada. Il suo stile da cantautore, poi, con quell’attenzione per i suoni black, alla Motown, è notevole. C’e tuttavia una differenza fondamentale tra noi: nei miei pezzi non rinuncio mai del tutto all’hip hop e al rap, anche quando questi elementi si riducono a una presenza contenuta. Quando Neffa canta il soul, invece, abbandona del tutto il rap, a cui ritorna saltuariamente, ma con progetti dedicati.
Il concerto al Gran Teatro Morato di Brescia
Coez replica, dopo la prima assoluta del LattePiù, e si guadagna un altro bagno di folla: sono oltre 2000 gli spettatori accorsi al Gran Teatro Morato per il secondo live di aprile del rapper cantautore a Brescia. Si passa da un disco-club a un teatro capiente, per forza di cose l’atmosfera è meno raccolta: il pubblico è un’onda e pure molti di coloro che hanno speso una manciata di euro supplementari per sedere in tribuna abbandonano presto la comodità per il parterre, a stretto contatto con l’artista e la sua band. A testimoniare la permanenza di una situazione emergenziale non sono tanto le mascherine (una presenza intermittente, in verità), quanto il mantenimento delle distanze interpersonali, con movimenti cauti, sul posto. Ciò che la platea trattiene sul piano dinamico lo sprigiona nel canto, accompagnando entusiasta le esecuzioni di Wu Tang, Fra le nuvole e Flow Easy, sequenza d’apertura pure dell’album Volare. E lo stesso avviene con Luci della città, titolo chapliniano per una canzone che prelude al saluto dell’artista nocerino: “Siete carichi, eh! Chi di voi – chiede – c’era al LattePiù, per il primo concerto del tour? Allora pochi ma buoni, qui tanti e buonissimi!”. Quindi aggiunge: “Con Brescia c’abbiamo uno storico…e siamo pure gemellati con il vostro concittadino Frah Quintale !”.
Quindi annuncia un “pezzo bello tirato” e attacca Ol’ Dirty: comincia con scatti rabbiosi, ma a un certo punto arriva comunque il cantato dolce, perché la formula giusta prevede i più disparati dosaggi di hip hop e melodia, mai l’esclusiva di un mood o dell’altro. Convivono la rancorosa Crack e un irresistibile pop tipo Faccio un casino, la durezza esibita di Sesso e droga con il romanticismo vecchio stile di Come nelle canzoni. La transizione da underground a pop(olare) è compiuta, e l’artista che occupa il palco con carisma sciallo e il capello verde acido è uno di quelli che l’ha affrontata con sistematica consapevolezza. Si assiste a un concerto molto suonato, ad ogni modo, con spazi contingentati per i (comunque immancabili) campionamenti. La recente, sentimentale ballad Occhi rossi ha già la statura del classico (ed è un’eccezione, “perché i miei dischi ci mettono sempre un po’ a essere digeriti” spiega Coez), mentre la poetica E yo mamma è limpida espressione di amore filiale che arriva al cuore (ovazione). Quindi il nuovo (Domenica) e l’antico (Niente che non va, perfetta nell’inquadrare una generazione con una manciata puntuale di frasi) si prendono per mano in un gioco che dura tutta la sera, con l’emozione pronta a volare altissima attraverso Ali sporche. Nei bis, Coez regala una versione quasi dance di Siamo morti insieme, con bassi frementi (“Solo per voi, Brescia! Per premiarvi – assicura – del calore che ci avete dato”), prima della chiusura in chiaroscuro con È sempre bello, La musica Non C’è e Faccia da rapina, dove un pizzico di malinconia non oscura il pensiero positivo.