Lo chiama “l’angolo dei vivi” la famiglia che abita la casa ricavata nella roccia al confine con l’immenso cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Zvia, la moglie, fa la custode e accudisce i quattro figli. Non si sposta quasi mai da quel luogo, dalle stanze dell’abitazione e dalle tombe arroccate sulla montagna, scenografia originale e labirintica che lei conosce a memoria e che si presenta ben più viva degli ambienti claustrofobici della dimora familiare. Una contrapposizione che, scena dopo scena, si esprime in maniera sempre più evidente. Come, in maniera altrettanto evidente, si esprime la sua doppia vita, diurna e notturna, in cerca di relazioni, complicità, desideri che si sono spenti nel rapporto con il marito Reuven, del tutto assorbito dal suo lavoro di studioso di testi sacri, e anche con i figli piccoli. Lo racconta, questo intenso, silenzioso, personaggio femminile, dal volto triste dal quale trapelano emozioni non esplorate (l’attrice Shani Klein è perfetta), Mountain, opera prima della cineasta Yaelle Kayam (presentato nella sezione Orizzonti). Un film che conferma lo stato di grazia della cinematografia israeliana, da anni non più limitata a pochi nomi noti, ma arricchita da lavori preziosi e coraggiosi, spesso realizzati da donne.Mountain (titolo originale, Ha’har) è uno di questi.
Quasi completamente girato nel cimitero e nella casa adiacente, salvo qualche rara scena (in un bagno dove Zvia si reca per un rito casher di purificazione immergendosi nuda in una vasca; in una strada di Gerusalemme quando la protagonista decide di concedersi il piacere di un’escursione lontano dal suo opprimente “angolo dei vivi”, guardando vetrine e magari immaginando Tel Aviv, per lei un altro mondo, una parola magica, come si nota in una delle scene iniziali in cui Zvia incontra al cimitero persone giunte da quella città e poi parlandone con il marito dice: “Sai da dove arrivava quella gente?”), Mountain è l’esplorazione di un luogo e di una inadeguatezza, la messa in scena di rituali quotidiani per Zvia svuotati di senso (le preghiere, le faccende domestiche, i bambini da mettere a letto o preparare per la scuola, il rapporto anestetizzato con il marito) e di un mondo notturno, letteralmente parallelo anche se si manifesta nello stesso posto, che la donna scopre per caso, fumando una sigaretta in cima al cimitero. Una coppia sta facendo sesso su una tomba. Zvia scoprirà, osservando con un cannocchiale, altre coppie, ovvero delle prostitute, e i loro sfruttatori e clienti. Un popolo della notte che l’attrae sempre più, che la spinge a cercare il dialogo con una prostituta, a portare da mangiare a quel gruppo che ogni notte si ripresenta, a trascorrere del tempo silenzioso con quegli sconosciuti. Anche con un sudcoreano in visita alla tomba della famosa poetessa ebraica Zelda Schneersohn-Mishkovsky(1914-1984) che Zvia ama, della quale porta sempre con sé un libro di poesie, scambiato per un testo di preghiere dall’operaio palestinese che lavora nel cimitero, altro personaggio con il quale Zvia instaura un dialogo. Le due scene che evocano la poesia di Zelda, tra le più commoventi del film, indicano perfettamente il livello interiore di comunicazione che si può instaurare tra persone, e qui non casualmente tra Zvia e un asiatico, che le recita una poesia di Zelda nella sua lingua (ovvero, i sentimenti comunicano al di là della comprensione delle parole), e tra Zvia e il palestinese. O, in un altro contesto, tra Zvia e una delle prostitute.
Yaelle Kayam esordisce con uno sguardo essenziale posato tanto sui corpi quanto sui luoghi, con una progressione drammatica che conduce a un finale meravigliosamente sospeso, dove la donna, preparando ancora una volta il cibo serale, mette in una delle due pentole (una destinata alla famiglia, l’altra ai frequentatori notturni del cimitero) del veleno. A chi sarà destinato? Lei, di certo, non può che appartenere a quel posto, e nell’ultima inquadratura, qualunque sia stata la sua vendetta, all’alba di un giorno forse non diverso dai precedenti cammina fra le tombe, dall’alto verso il basso del cimitero, e sparisce fra esse, inghiottita (anche) dall’inquadratura.