Mariano Llinás conferma il suo tratto d’autore anche in questo piccolo film che sa diventare oggetto più trattabile nel suo più semplice impianto rispetto a quello delle altre sue opere più recenti, ma anche più temporalmente normale, rispetto alle mastodontiche durate dei suoi film-saggio ai quali ci ha abituati, come La flor e Historia extraordinaria. Clorindo Testa film-contenitore a sua volta, tanto il suo argomentare è pieno di temi, tracce e visioni personali del mondo che finiscono per diventare visioni personali del cinema, apparentemente vuole ricordare la figura di Clorindo Testa, un architetto argentino appartenente alla corrente del cosiddetto Brutalismo. Una corrente, in verità molto in voga nel recente passato argentino e, più in generale, in America Latina. L’architetto Testa era amico del padre del regista tanto da avergli dedicato un libro che diventa l’oggetto della ricerca con il quale il film si apre (il McGuffin avrebbe detto Hitchcock). Una traccia utile per lavorare sull’indagine che il film vuole essere non tanto e non solo sul personaggio, ma quanto sulle vicende familiari, sulla storia dell’Argentina e sul cinema come mezzo perfino di sovraesposizione e di centralità nella vita. È in questa direzione che va ricercato il senso della centralità che nel film la figura stessa di Llinás assume, non avendo timore di costituire egli stesso con la sua presenza perfino ingombrante il fulcro della esondante narrazione.
Su cosa e come vuole, Mariano Llinás, girare questo film? È la domanda che si pone egli stesso all’inizio ed è la domanda che ricorre durante tutto il film, che solo incidentalmente affronta frontalmente il ricordo e gli insegnamenti dell’architetto. Così diventa l’occasione per mettere in scena l’articolato e multidirezionale tema della storia recente del suo Paese, che resta sempre, più o meno mascherato o celato, dentro un più o meno manifesto racconto che sembra rivolgersi in altra direzione. E allora comprendiamo bene le teatrali sue incertezze all’inizio del film: Ma questo è un film su mio padre? Io non voglio girare un film su mio padre! Ma questo è un film su Clorindo Testa? Io vorrei girare un film su Clorindo Testa! Il fine è quello di smarrire lo spettatore per introdurlo dentro altre storie, quelle che Llinás conosce bene e ha messo in scena nella loro essenziale originaria consistenza. Tra documenti familiari, ricordi della madre e della sorella, incontri con la Fondazione Andreani, che ha ispirato e sostenuto questo film, il regista sembra volere attualizzare le sue intenzioni, salvo restare sempre in quel precario equilibrio dal quale questo film, la cui barra è in realtà sempre dritta e pienamente in mano al suo autore, sembra nascere. È in questo gioco di studiata incertezza sul da farsi che coinvolge i suoi amici, in primo luogo Agustín Mendilaharzu suo collaboratore e poi sua moglie, l’attrice Laura Paredes (per inciso alla sua terza apparizione in questa TFF41), affinché lo possano aiutare in questo suo vagare alla ricerca di quel baricentro filmico che in effetti egli ha già in mente. Clorindo Testa diventa quindi il pretesto, giocoso come tutto il cinema del regista argentino, per una proliferazione narrativa che ha il sapore delle narrazioni del maggiore scrittore di quella Terra, quei racconti senza centro ai quali ci ha abituato la letteratura di Borges.
Llinás vuole in realtà raccontare di sé stesso e dell’Argentina recente e in questo percorso che sfiora l’autobiografia familiare con la presenza costante del padre, Julio Llinás, la cui vita anche travagliata, tra cadute e riprese, sembra tracciare lo stesso percorso dell’Argentina con le sue fasi di ricchezza e splendore e il suo precipitare dentro i vortici di una inattesa povertà. È quindi, lentamente, che il film, dedicato all’architetto amico del padre, sembra prendere forma, pur nella sua continuamente sfuggente realtà, nella sua indomabile natura di oggetto morbido e duttile tutto nelle mani del suo autore. Clorindo Testa è un film sul concetto di Patria, di Nazione, di riflessione sulla sua storia come tema dominante di una poetica autoriale che ha trovato la sua sede naturale nel cinema. Come al solito Llinás realizza un film complesso nella sua struttura e nella sua ideazione, un film fatto di più percorsi, di molte sfaccettature che contengono sia le istanze narrative di una autobiografia filtrata attraverso la figura paterna che si sovrappone a quella altrettanto paterna della Patria, sia le altre istanze, più prettamente cinematografiche in una ricerca di una specie di cinema assoluto che possa comprendere tutto ciò che il cinema può contenere: la storia, propria e dei luoghi, le riflessioni, le idee sul mezzo e perfino le incertezze autoriali che conducono alla realizzazione di un’opera. Si ha l’impressione che questa sia la direzione, siano le direzioni, meglio, del cinema di Mariano Llinás, la cui diffusione andrebbe incoraggiata dalle nostre parti dove i suoi racconti sono quasi sconosciuti e il suo nome non dice nulla a molti per un’altra grave omissione dei nostri sguardi che non sempre sanno dirigersi nella giusta direzione.