Schivare la noia: Beatrice Fiorentino racconta i film della 39 SIC di Venezia

Beatrice Fiorentino

39. SIC, la Settimana Internazionale della Critica, sezione indipendente organizzata dal SNCCI, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, all’81. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dal 28 agosto al 7 settembre). L’impressione che si ha guardando la line-up di questa SIC è quella di una selezione davvero giovane, dinamica negli orientamenti, nelle scelte narrative, nella prospettive degli sguardi. Ovviamente attendiamo la prova dello schermo del Lido, ma intanto ne abbiamo parlato con Beatrice Fiorentino, la Delegata Generale della SIC, che ha guidato la squadra composta da Enrico Azzano, Chiara Borroni, Ilaria Feole e Federico Pedroni nel lungo lavoro di ricerca e selezione. (In apertura una immagine di No Sleep Till di Alexandra Simpson).

 

 

 

 

Anche quest’anno la SIC sembra tarata su un’idea di cinema molto dinamica, quasi orientata a schivare le trappole del cinema festivaliero. Nei film selezionati si intuisce una giovinezza interlocutoria rispetto alla realtà contemporanea e anche rispetto al cinema che la racconta: in questo orientamento, qual è l’elemento che maggiormente guida le vostre scelte?

Forse proprio cercare di evitare le trappole del cinema festivaliero. Avendo a disposizione una selezione di soli 9 titoli è fondamentale portare avanti una proposta quanto più possibile riconoscibile e coerente. Innovativa, coraggiosa. Una parte non trascurabile del cosiddetto “cinema da festival”, invece, resta bloccata in una sorta di limbo, una terra di nessuno. Non osa troppo perché cerca evidentemente il favore di un pubblico generico e ampio. Questa zona di comfort però è “grigia” e spesso diventa, come dici tu, una trappola, una proposta destinata a tutti che finisce per essere “per nessuno”. È la dittatura del film a tesi, del “trend topic”, del film scritto e parlato risolto nel “plot”, nello schema, nella ripetizione e nella noia. Dimenticando che il cinema è prima di tutto immagine. Sia dentro che fuori dal canone. Ecco, direi che proviamo a schivare la noia. Cerchiamo sorpresa, diversità, potenza, idee, immagini-cinema con il potere di scuotere lo spettatore dall’apatia del déjà-vu.

 

Anywhere anytime di Milad Tangshir

 

Un elemento che emerge nei film di quest’anno è il superamento della divaricazione tra realtà e immaginario, tra reale e magico. In questo spazio qual è il posto delle questioni contemporanee? Quali sono i temi che questi giovani autori affrontano?

I film di quest’anno risentono del clima di incertezza che viviamo. Inevitabile che le atmosfere virino al nero, ma è altrettanto inevitabile che, in una spinta vitalista, il cinema voglia rispondere alle tragedie del presente cercando delle vie di fuga e addirittura offrendosi come via di fuga. L’immaginario, il realismo magico, la metafora, rappresentano quindi una sorta di “escape room”, un modo per sottrarsi all’oppressione del reale o almeno per sublimarlo. La questione femminile nel Vietnam di Don’t Cry, Butterfly con la metafora di uno spirito che infesta le mura domestiche e si manifesta solo alle donne; la diversità che si materializza sotto forma di germogli che crescono su giovani corpi attirando il pericolo nel Maghreb dove la tensione tra tradizione e modernità è ancora irrisolta, è ciò che accade in Perfumed with Mint; la tempesta all’orizzonte in No Sleep Till con la sospensione del tempo della realtà, ma anche la finzione che protegge il protagonista di Peacock dal vuoto della propria esistenza o, ancora la finzione, sotto forma di reenactment di episodi cruenti della Storia, per elaborare traumi personali e collettivi in Paul & Paulette Take a Bath. Il corto circuito più spiazzante tra realtà e immaginario, però, o per meglio dire tra realtà e realtà, è quello che si genera in Homegrown, documentario civile che piazza l’occhio della macchina da presa in mezzo a un gruppo di sostenitori di Trump durante la campagna elettorale del 2020 e durante l’assalto a Capitol Hill e che oggi, alla vigilia delle nuove elezioni americane, ma soprattutto dopo l’attentato del 13 luglio, ha la capacità di rigenerarsi e assumere nuovi significati ogni giorno, riscrivendo l’immaginario del reale sotto i nostri occhi. Impressionante.

 

La sfida più difficile che avete affrontato durante la selezione? E la sfida più intrigante che lanci al pubblico della SIC? 

Una sfida concreta: l’organizzazione del lavoro a fronte di un numero davvero inaspettato di film ricevuti e considerati quest’anno. Siamo intorno ai 700 lunghi e ai 350 corti, con una qualità media più elevata del solito. È chiaramente un dato positivo, lo interpretiamo come un segnale di crescente fiducia da parte dell’industria e non possiamo che esserne orgogliosi. Ma abbiamo dovuto organizzarci. Quanto al pubblico, saranno i registi e le registe a sfidarli. Il mio consiglio è quello di non opporre resistenza, e lasciarsi invece portare dai film abbandonando ogni tipo di dogma o di preconcetto. Si uscirà dalla Sala Perla pieni di suggestioni feconde e di immagini persistenti.

 

 

The Eggregores’ Theory di Andrea Gatopoulos

 

Grande curiosità per il cinema italiano, naturalmente: ci dici che Anywhere Anythime sta tra De Sica e Garrone. E dei corti di Sic@Sic cosa puoi dirci? Tematiche, stili, elementi di forza e di fragilità…

Proprio così, tra De Sica e Garrone, ma inserendosi dialetticamente in una conversazione tra i due, non solo come esempi a cui tendere. Anywhere Anytime è un film senza mezze misure bellissimo e importante. Elegante e maturo. Ha un sapore antico e moderno al tempo stesso. Milad Tangshir, nato a Teheran ma torinese di adozione, ha avuto la capacità non comune di riuscire nell’impresa di aggiornare la lezione neorealista, non semplicemente “adattarla”, ma comprenderne la verità, l’urgenza, il senso profondo e provare a capire dove spostare lo sguardo per trovare quel grado di tragedia vissuta dai nostri padri nell’Italia del dopoguerra. Nell’Italia globalizzata di oggi, quell’umanità, quella disperazione la trovi solo tra chi, pur conservando intatti i valori e dei codici morali, è costretto a disattenderli per sopravvivere. I corti SIC@SIC anche quest’anno viaggiano in parallelo, ma non scollegati dal feeling generale del programma. Anzi. Basti pensare a Playing God, un piccolo horror in plastilina che ragiona -a passo uno- sul concetto di creazione e distruzione come metafora della società, una società in crisi, com’è piuttosto evidente, per non dire di Dark Globe, di Donato Sansone, in apertura, un vero e proprio grido di allarme, un messaggio ecologista e pacifista sintetizzato in stato di libertà creativa assoluta. Anche i corti, insomma, sono in dialogo tra loro, con i lunghi e con il mondo lì fuori. C’è tanta periferia, non necessariamente in senso geografico, ma anche come stato mentale, in senso esistenziale. E moltissimi giovani e giovanissimi (Billi il Cowboy e Sans Dieu), alle prese con uno spaesamento generale, alla ricerca del loro posto nel mondo. Penso a Nero argento, Phantom, Things that My Best Friend Lost, Domenica sera, il corto di chiusura che riporta Matteo Tortone alla SIC. Il senso di smarrimento è evidente anche nei corti più teorici, quelli orientati a ragionare anche sulla natura dell’immagine, mentre raccontano storie: The Eggregores’ Theory, che mi ha fatto pensare a La Jetée, realizzato con immagini generate dall’Intelligenza Artificiale e ambientato in un futuro distopico. Un film di fantascienza sulla censura e sui sentimenti nella civiltà degli algoritmi. E At Least I Will Be 8 294 400 Pixel, un viaggio in un passato ipotetico, tra memorie reali, innesti virtuali, desideri inesauditi, un trattato sulla smaterializzazione dell’immagine. Una questione che dovremmo porci tutti.

 

Playing god di Matteo Burani

 

Infine una domanda alla Delegata Generale: quanto è difficile fare la SIC nella scena attuale dei festival? Quanto è arduo andare in cerca di opere prime che valgano davvero la selezione?

La SIC gioca in un campionato di serie A, nello stesso girone della Semaine de la Critique, della Quinzaine, delle Giornate degli Autori, di sezioni come Orizzonti e Cineasti del Presente, ma ho l’impressione che di anno in anno il rapporto tra noi si stia orientando sempre più verso un indirizzo comune a sostegno del nuovo cinema piuttosto che alla competizione. E la cosa non può che farmi piacere, mi pare un atteggiamento sano e condivisibile. Fare la SIC è una sfida bellissima ed elettrizzante, ma anche una enorme responsabilità. Ne consegue un impegno a tempo pieno, perché il lavoro di selezione è solo la punta dell’iceberg, la fase conclusiva di un processo che va avanti a ciclo continuo. È necessario mantenere la soglia di attenzione sempre alta, così come puntuale deve essere la conversazione con tutte le professionalità interne all’industria, ma anche della scena indipendente. In questo scenario è importante non distrarsi rispetto a ciò che accade nell’immediato, ma anche impostare un lavoro a medio termine, in modo da avere una sorta di mappatura che, seppure in costante evoluzione, costituisce una buona base di partenza. Ci vuole tempo, attenzione e una chiara visione d’insieme. O anche semplicemente una visione.

 

Il sito della SIC – Settimana Internazionale della Critica