La rabbia e la paura: Scomode verità di Mike Leigh

Che un film sulla rabbia sia in realtà un film su una lacrima è già di per sé un magnifico paradosso, che dice molto di questo nuovo film di Mike Leigh, Scomode verità, storia di sorelle e storia di famiglie, ma anche storia di paure profonde, lontane, indicibili e infatti mai dette. Dopo la doppietta storica di Turner e Peterloo, Mike Leigh torna a distorcere la narrazione del tempo presente in un dramma psicologico, che guarda la felicità con gli occhi del dolore per definire una scena esistenziale in cui si riflette, in profondità, quella stessa scena sociale in cui altri autori del XX Secolo (Ken Loach, i Dardenne), si muovono in maniera solo apparentemente diversa. Nel grido spaventato e rabbioso con cui Pansy si risveglia all’inizio e ogni altra volta nel film, è chiaramente racchiuso un dolore che viene da lontano e che abita ogni stanza della casa di questa donna matura, tanto quando ogni spazio relazionale in cui la vita quotidiana la porta.

Arroccata com’è in una paura che esprime perennemente in astiosa opposizione al mondo e assediata dal rifiuto di ogni possibile relazione sia di prossimità che meramente occasionale, Pansy dirama bollettini di guerra ogni volta che apre bocca o incontra qualcuno. E tiene in ostaggio sia il marito Curtley che il figlio Moses: l’uno disperso nelle trame salvifiche del suo quotidiano lavoro di idraulico, l’altro chiuso nella stanza nullafacente della sua obesità, che porta in giro per la città sotto l’anestesia acustica indotta dalle cuffie. Dall’altra parte del mondo c’è la vita, che scorre come può, in una quotidiana serenità che evidentemente fa paura a Pansy e che va in scena nelle ore e nei giorni di sua sorella, Chantal: nel suo negozio da parrucchiera e nella casa dove vive con le figlie, due ragazze spensierate come tante altre. Su questa plastica opposizione Mike Leigh costruisce una scena psicologica perfettamente organica al portato di un film in cui l’articolazione dei sentimenti, l’espressione delle emozioni, la dinamica delle relazioni nasce con la funzionalità teatralizzata dello psicodramma. Il metodo di lavoro induttivo messo a punto dal regista sin dai suoi esordi sulle scene britanniche e sviluppato lungo l’arco di tutto il suo cinema, trova nel lavoro con gli interpreti lo spazio per definire la realtà umana dei personaggi.

E nel caso di Scomode verità il lavoro messo in campo dalla potente Marianne Jean-Baptiste per Pansy si avvita proprio sul dolore inespresso di una donna incapace di abbassare la guardia, di pacificarsi con la sofferenza dei propri vissuti, con il peso delle responsabilità. Al centro della scena psicologica del film, nel cuore di tutta questa impossibilità di vivere, c’è infatti immancabilmente il segno della morte: quella della madre delle due sorelle, avvenuta anni addietro e rispetto alla quale Pansy non riesce a pacificarsi. Chantal la porta sulla sua tomba nel giorno della festa della mamma, invita lei e i suoi due uomini a casa sua, ma il pianto non scioglie la rabbia e il rancore resta l’arma più forte con cui la donna pensa di potersi difendere.

La paralisi che annichilisce ogni possibile avvento, la dispersione in un dolore occluso in se stesso è la traccia che da Bleak Moments a Naked e Segreti e bugie, sino a Another Year Mike Leigh segue per definire una scena esistenziale nella quale si muovono tanto l’umanità, intesa come insieme di individui, quanto la società, intesa come rete relazionale e comunità. Scomode verità è un dramma diafano che ha la sua potenza nella possibilità che offre di guardare la “tragedia” di Pansy e della sua famiglia attraverso la “commedia” di Chantal e delle sue figlie, e viceversa. Ovvero di considerare la rabbia con gli occhi dell’armonia, la paura con gli occhi della serenità, la guerra con gli occhi della pace. E viceversa. È un film su due sorelle, ma e anche un film sul mondo, consegnato a un finale che sta tra il passato paralizzato nelle lacrime del rancore e un possibile futuro in cui si condivide un sorriso.