L’unico amore felice è quello della ripetizione, non conosce l’inquietudine della speranza, la sfida angosciosa della scoperta, ma in più gli è ignota la mestizia del ricordo, ha la sicurezza beata dell’istante
Søren Kierkegaard
Numerosi e anche affascinanti gli intrecci e gli incroci che un film come Volveréis – Una storia d’amore quasi classica, propone per il ritorno al cinema del poco più che quarantenne regista spagnolo Jonas Trueba, dopo cinque dall’ultimo suo film La virgen de agosto, i cui interpreti, tra gli altri, erano gli stessi Itsaso Arana, Vito Sanz, ma anche Francesco Carrill, che torna con un cameo anche in questo film. Se dovessimo trattarlo nella sua pura essenza diremmo che si tratta del racconto di una coppia, lei Ale (Itsaso Arana) e lui Alex (Vito Sanz), la cui storia d’amore sta (forse) per finire e che secondo un’idea abbracciata dai due protagonisti, ma nata dalla elaborazione del padre di Ale, decidono di festeggiare la loro separazione con una festa da organizzarsi nell’ultimo giorno d’estate. Questo è il racconto, ma in realtà Ale è una regista e Alex il suo attore e dunque la storia che vediamo non è la storia della coppia, o meglio lo è, ma siamo dentro un set e quello che vediamo è un film. E qui ci domandiamo: senza questo giochino di trasposizione di piani, non avremmo visto lo stesso un film? Si certo! Ma resta sempre interessante la riflessione mediata, quel metacinema che sembra rendere oggettiva la materia, guardandola con l’occhio dell’entomologo, con lo sguardo dell’analista. Il cinema che analizza attraverso il cinema le cose della vita tende a smitizzare il rapporto con l’arte, riportando su un terreno più consueto e quotidiano i temi poiché il cinema assume la natura, la forma e la funzione di strumento di indagine e quindi smette di essere per forza forma artistica, essenza di una ricerca formale, per diventare essenza di una ricerca sostanziale, congegno di elaborazione pur all’interno della sintassi e della grammatica imposte dalle regole.

Trueba dunque lavora su questo straordinario equilibrio, ma il suo film, che resta solidamente ancorato a questa indagine sulla fine di una relazione amorosa, diventa un cubo di Rubik in cui le facce del vero e del falso (a ciascuno la scelta di adesione all’uno o all’altro dei piani narrativi) devono ad un certo punto incrociarsi e confluire dentro un unico livello del racconto, un’unica situazione. Sfuggono rapidi questi momenti e il film di Trueba continua a moltiplicare derive di senso in quell’equilibrio tra falsa verità e messa in scena filmica. Quasi inconsapevolmente – e questo è un tratto quasi intimo di un film che sembra davvero avere la capacità in sé di pensare ed elaborare, quasi fosse una intelligenza artificiale – smette di utilizzare il metacinema per diventare, pur nella sua verbosità originaria di un film iperscritto e iper-dialogato, narrativamente fluido e strutturalmente sempre più labirintico. L’incontro a metà storia con il padre di Ale, ispiratore della teoria, più volte ripetuta in quel mantra della riproposizione del festeggiamento dell’addio, consente al già doppio racconto di aggiungere un profilo ulteriore, un senso ancora più strettamente legato al cinema e alla sua struttura aperta, dentro la quale accogliere il male e il bene del mondo. Non è un caso infatti che l’anziano personaggio regali alla coppia tre libri, due dei quali sono del filosofo americano Stanley Clavell: Il cinema ci renderà migliori? e l’altro edito anche in Italia, Alla ricerca della felicità, considerato come uno dei testi più attenti a quel rapporto tra filosofia e cinema, tra filosofia e commedia in quell’ambito del pensiero che chiamava “commedia delle seconde nozze”. Il terzo libro che Ale e Alex ricevono è un piccolo e quasi dimenticato libro di Søren Kierkegaard, La ripetizione, peraltro pubblicato dal filosofo danese sotto uno pseudonimo. Il libro riflette sul concetto di ripetizione non tanto per una sorta di anticipato eterno ritorno, quanto invece per misurare una specie di autenticità dell’esistenza nel ripetere gli atti della vita. È così che il racconto di Volveréis si articola ancora in più piani, non tanto narrativi quanto concettuali.

Il cinema diventa strumento – come si diceva – per una possibile ripetizione della vita, quelle seconde nozze dentro le quali trovare, nel rivissuto, la possibile felicità. Lo dicevamo all’inizio che si era davanti ad un film dai numerosi e anche affascinanti intrecci e incroci, che si risolvono nella semplicità dell’amore che Ale e Alex sembrano ritrovare, in quella separazione fittizia, immaginata e (mai davvero) festeggiata, ma in quella ripetizione dell’innamoramento che restituisce consapevolezza all’amore che diventa amato. Liberato da ogni paura e da ogni inquietudine come ci suggerisce la frase di Kierkegaard, più volte citata. Non è ancora, e ovviamente, un caso che il titolo del film sia “Tornerete” con una somiglianza straordinaria, anche concettuale, alla canzone cantata da Lauzi e già citata da Nanni Moretti. È uno sguardo largo, molto largo quello di Trueba sul cinema e il suo film, non sempre perfetto, ma sempre stimolante e davvero tanto arditamente complesso da meritare molta attenzione, sembra anche giocare dentro il grande scenario del cinema con Bergman e e gli immaginari suoi tarocchi per divinare il futuro e quando Ale va a trovare il suo vecchio amico (Francesco Carrill) sul set di una serie TV da subito, per chi la avesse vista, il pensiero va a Dieci capodanni, che vede tra i suoi registi Rodrigo Sorogoyen, e dove Carrill, insieme a Iria del Rio, è il protagonista. Un altro incrocio tra vero e falso, ancora riflessione in “seconde nozze” di un cinema che allarga gli orizzonti, restringe la scena e riflette con incessante assiduità sull’eterno tema dell’amore.


