Continua la missione ai limiti del suicida di Gi-Hun, vincitore dell’ultima edizione della competizione clandestina Squid Game, di far saltare l’organizzazione che orchestra il gioco partecipandovi una seconda volta mentre una squadra di uomini capitanata dal detective Jun-Ho, fratello del Front Man a capo dell’organizzazione, cerca di localizzare l’isola su cui si trova. Le indagini, depistate dalle quinte colonne del frontman, sembrano andare a vuoto mentre sull’isola i giochi, cambiati rispetto alla precedente edizione, continuano a mietere vittime anche se Gi-Hun, forte della sua precedente esperienza, sembra sapersi destreggiare sopravvivendo gara dopo gara nel tentativo di sensibilizzare i suoi compagni di sventura per unirli contro il sistema che li illude con un premio faraonico ma che li vuole morti per l’intrattenimento di pochi ricchi privilegiati. Dopo l’inaspettato successo planetario della prima serie e dopo una seconda stagione che ha retto l’impatto di un hype alle stelle, con la terza stagione Squid Game comincia a mostrare la corda.

Il meccanismo, che tanto bene aveva costruito le aspettative, inizia a incepparsi quando vengono inseriti elementi nuovi che ne compromettono il funzionamento. Certo, non ci si poteva aspettare una ripetizione di quanto visto in precedenza, un fattore di evoluzione andava inserito, ma se nella stagione precedente i cambiamenti avevano retto bene, introducendo in qualche caso delle dinamiche interessanti come le modifiche nella dinamica del voto concesso ai giocatori, nella terza stagione le variazioni non sortiscono gli stessi effetti positivi. Vuoi per come sono gestiti, a volte dei veri propri salti dello squalo come la vicenda del giocatore 222, che regge un po’ troppo bene tutto quel che le capita in una volta sola, a volte dei momenti di redenzione costruiti in maniera un tantino frettolosa come quello del Front Man, altre volte situazioni con una retorica davvero telefonata e didascalica, come la situazione di Gi-Hun con la bambina. In tutto questo la critica portata da Squid Game (Netflix) non si può dire che si vada del tutto a perdere ma finisce un po’ in secondo piano, c’è ma viene anche un po’ data per scontata e praticamente nulla si aggiunge rispetto alle stagioni precedenti, forse per dare spazio alla sottotrama della ricerca dell’isola che pure soffre di una certa mancanza di direzione, si trascina un po’ senza andare davvero a parare da nessuna parte e, raccontata in quel modo, di nuovo non aggiunge nulla all’economia della serie quanto meno in termini di intrattenimento.

A ogni modo non sarebbe corretto definire Squid Game 3 un deragliamento totale. Certo, la stagione è sottotono rispetto alle altre due ma nel complesso scorre e diverte, stride il calo qualitativo della scrittura ma non è inguardabile. L’impegno si vede, la voglia di continuare a produrre una serie di livello c’è ma dal lato creativo la macchina nel suo complesso è arrivata a un punto morto che, se Squid Game finisse qui, andrebbe pure bene nell’ottica di una possibile chiusura. In tal senso la possibile continuazione del franchise con ambientazione americana diventa un salto nel vuoto. Potrebbe ridare slancio alla serie o affossarla per sempre, ma questo è tutto da vedere.


