Non c’è niente da ridere: Casa in fiamme di Dani de la Orden

Diretto dall’emergente Dani de la Orden (classe ’89, una decina di lungometraggi in dieci anni di carriera, compreso il remake di Sole a catinelle e alcune serie prodotte da Netflix), coadiuvato dal sodale sceneggiatore Edoardo Sola, Casa in fiamme è una commedia agrodolce che abbraccia senza indugio il grottesco e l’assurdo per poi dipanarsi verso le derive del melanconico e del nostalgico, tra le pieghe di un gioco al massacro fatto di ripicche e sensi di colpa in cui prevalgono le emozioni a buon mercato. Una tragicommedia, in effetti non priva di cattiveria e ambivalenza. In patria si è aggiudicato Goya e Gaudì ma resta un film facile. Che vuole divertire facendo godere lo spettatore per i guai degli altri, un po’ come hanno fatto i grandi maestri (da Chabrol a  Buñuel fino a Allen) questo è chiaro: la vittima illustre è la famiglia intesa come istituzione borghese che ha fallito, attraversata com’è da legami deboli, menzogne, ipocrisie, rancori e diffuse fragilità affettive.

 

 
Lo spunto è funzionale per come riesce a depistare le attese dello spettatore: Montse ha sessant’anni, due figli e un ex compagno. Chiama a rapporto tutti a Cadaqués in Costa Brava, nella casa dove trascorrevano le estati quando i bambini erano piccoli, gli adulti erano felici e tutti erano ancora una famiglia. L’obiettivo ufficiale del soggiorno è preparare il trasloco durante il sabato e la domenica per poter vendere la casa il lunedì. Il piano prevede la distribuzione del ricavato della vendita, denaro che sarà perfetto per David per pagare il suo nuovo album, per Julia per acquistare un appezzamento di terreno in Cerdanya e per Montse stessa per pagare la residenza della nonna. Ma chiaramente nulla andrà come preventivato, tutto andrà a rotoli e la casa, letteralmente, in fiamme. Il colpo di scena con cui il film si apre riesce subito a spingere il racconto verso quelle derive grottesche in cui vorrebbe sguazzare, tra black humor, silenzi e equivoci. Ma ben presto la traiettoria principale diventa un’altra: ciascun membro della famiglia viene fotografato nella propria inconsistenza, al vaglio di cambiamenti sommersi e trasformazioni mancate, reo di volersi approfittare della situazione.

 

 
Casa in fiamme diventa quindi un film che vuole prendersi sul serio, un po’ “a la Muccino” e quando può affonda il coltello nella piaga, crede poco nelle immagini e molto nei dialoghi, vuole le forzature, i siparietti, le lacrime: la scena del finto smarrimento dei figli di Julia è emblematica per come sceglie di speculare sul dolore dello spettatore. Il presupposto non è sciocco: Montse si sente persa, entrando nella terza età vede come ciascuno dei membri della sua piccola famiglia ha tracciato il proprio percorso, ora è rimasta sola, al centro ma nessuno ruota più intorno a lei. Questo cambiamento percepito come un decentramento è la chiave per leggere la storia sua e quella degli altri personaggi di questo piccolo teatro degli orrori dove sul più bello, quando il massacro dovrebbe entrare in scena “a la Haneke”, tutto si spegne anziché bruciare riducendosi banalmente a “un weekend particolare” come lo definisce l’amante dell’ex marito, psicoterapista che muove involontariamente (?) i fili dell’intreccio.