Il danno collaterale nella società degli uomini: Vera sogna il mare di Kaltrina Krasniqi

Opera prima della kosovara Kaltrina Krasniqi, Vera sogna il mare è il racconto di una resistenza femminile, ma è anche il ritratto della sottesa società patriarcale che sopravvive, ben radicata, in quelle sacche di territori in cui più forte è il valore di una tradizione che assegna ruoli e distribuisce imposizioni. Vera lavora in TV facendo la traduttrice dei telegiornali nella lingua dei sordi ed è moglie di un giudice in pensione. Quando il marito, depresso, si suiciderà, si troverà da sola ad affrontare una situazione imprevista e ad aiutare la figlia, che lavora in teatro con scarsa fortuna, e la piccola nipote, che sta crescendo senza un padre. Il marito, stimato magistrato, aveva in realtà il vizio del gioco e durante una partita si era giocato la casa in campagna perdendola. In realtà Vera sperava, invece, che con la vendita di quella casa avrebbe potuto affrontare le spese per mantenere la figlia e la nipote. Ma la società degli uomini e le ferree regole di una tradizione non scritta daranno un’altra impronta alla vita di Vera, che ancora, dibattuta tra ricatti e imprevisti, continua a sognare il mare.

 

 
La dedica finale che la regista imprime al suo film, ricordando la madre, fa pensare a qualche tratto biografico che riguardi la sua vita. Ma anche prescindendo da questa eventualità, il suo film, già presentato nella Sezioni Orizzonti di Venezia81, regge la visione in quel rapporto empatico che l’autrice sa creare tra la vicenda umana della protagonista e lo spettatore. La complicità di un realismo accentuato – tratto comune dell’ultima generazione di registi che provengono dalle aree di quella che un tempo era la Jugoslavia – diventa narrazione lineare, forse senza scosse, ma convincente nel riuscire a definire i profili dei personaggi e le loro relazioni intime e pubbliche. Tutto avviene, come spesso accade nei film dei Paesi balcanici, in un arco temporale che senza costituire una regola – mai più di 90 minuti – diventa tratto unificante di quelle cinematografie. Kaltrina Kasniqi ha saputo mettere a frutto i suoi studi all’università di Pristina con un esordio che sembra più sussurrato che urlato, nonostante il tema sia di impatto riguardando questioni di genere e quindi il modo di stare nel mondo kosovaro per una donna sola e non più giovane.

 

 
C’è una scoperta che appartiene al momento della solitudine, dopo la morte del marito, che costituisce un ribaltamento della vita precedente, riletta da Vera alla luce di una tradizione che pensava non la riguardasse: anche lei è stata vittima inconsapevole dei retaggi del passato. Non è tanto il vizio del gioco del defunto marito ad addolorarla, debolezza che conosceva e di cui si vergogna, ma è la scoperta di avere perduto la casa per colpa del marito. Non solo per il danno economico, ma per ciò che rappresenta un gesto come quello, rivelato da un video rubato con un telefonino e diventato oggetto di ricatto. Vera sembra vedere crollare l’immaginata complicità coniugale e comprende di essere stata sempre da sola in un mondo di uomini che hanno determinato la sua vita. È in questa proiezione, che parte da una vita semplice per diventare  condizione umana più generale, che il film di Kaltrina Kasniqi trova quasi sottovoce il suo passo, la sua autonomia al femminile. Vera diventa una combattente irretita dentro le maglie di un raggiro ordito con la più o meno consapevole partecipazione del marito defunto. E il suo districarsi tra piccoli e grandi drammi familiari, in una solitudine che diventa più forte con l’abbandono di amici che pensava fidati, racconta drammaticamente il presente che sembra ancora il passato. Racconta con affetto e partecipazione il dolore muto di Vera, ma soprattutto, molto bene, quello che la stessa regista dice a suggello del suo film: le donne possono essere solo un danno collaterale di uno sviluppo che non vuole ostacoli.