Miracoli o, più cautamente, coincidenze. Coup de théâtre o, forse, de chance per stravolgere il palcoscenico della vita, gettare la maschera, ricostruirsi, diventare nuove persone e assistere come spettatori alla propria metamorfosi, abbandonando storie, forme, connotati fino a quel punto stabiliti e subiti, per innescare una trasformazione definitiva. Come in un processo favolistico, seguendo gli ingranaggi del mito e della leggenda. Al suo secondo lungometraggio, dopo l’esordio avvenuto con Un figlio nel 2019, il regista Mehdi M. Barsaoui con Una sconosciuta a Tunisi (Aicha) suggerisce allo spettatore che la storia di riscrittura dell’identità di una giovane donna offre più di uno spunto di riflessione per un’analogia politica che dal particolare mira all’universale, dalla vicenda del singolo guarda a quella di un intero paese, dal drammatico vissuto di una giovane imprigionata nei diktat socio-culturali punta (anche se didascalicamente) alle recenti ma profonde ferite e vicissitudini di una Tunisia frustrata, afflitta da ingiustizie, pressioni culturali e religiose, incapace di sollevarsi per guardare in un’altra direzione.

Così Aya, il primo nome della protagonista (ne avrà altri due), figlia devota di una coppia di anziani di Tozeur, giovane inserviente che lavora presso un hotel di lusso immerso nel deserto, incarna la personalità di una gioventù tunisina “tormentata e imbrogliata” – come l’ha definita lo stesso Barsaoui – privata del proprio libero arbitrio, piena di sogni e di sete di libertà, in cerca di riscatto, sacrificata sull’altare dell’ideologia sociale, religiosa ed economica. Come se non bastasse, Aya vive in clandestinità la dimensione affettiva: è legata da una storia d’amore con Youssef, il direttore dell’hotel in cui lavora, un uomo potente che le promette da troppo tempo di riavviare la propria vita al suo fianco, da una parte incapace di chiudere il proprio matrimonio, dall’altra viscido e abile nel proteggerla dagli imminenti licenziamenti che ridurranno il personale della struttura. Aya si sente tenuta in pugno, costretta da un desiderio che coltiva in segreto: un modo diverso di stare al mondo. Si rende conto di vivere al confine della propria vita, immersa in una routine che la soffoca e la condanna a temere i sogni tanto che l’anziana coppia di genitori le propone di sposarsi con un uomo anziano ma facoltoso e lei sarebbe disposta a darsi un nuovo corpo pur di mantenere il segreto della propria condizione.

Un copione, un déjàvu, uno stereotipo, un modello morale, sociale, culturale da perseguire, un’immagine che altri vogliono vedere e manipolare e che invece lei non sopporta. Ma chi è davvero Aya? Nessuno lo sa, forse nemmeno lei. E quando tutto sembra seguire l’ordine delle cose, quando per l’ennesimo giorno il pulmino che la accompagna al lavoro attraversa le strade che costeggiano le dune del deserto anticipando una sconfortante piattezza, ecco che un incidente irrompe bruscamente nella sua vita. Aya coglie un’opportunità: si vede morta e si proietta altrove, diversa. Diventerà Amira, si convincerà di aver cancellato il proprio passato, proverà a ricostruirsi un’identità a Tunisi ma quando tutto sembrerà allineato per il verso giusto, nuovamente, tutto dovrà cambiare. Lei dovrà scegliere se adeguarsi o resistere. E il film di Barsaoui ripartirà, seguendo codici inclini al noir, attraversando una cupezza e una ambiguità che fino al quel momento erano state soltanto presagite. Un andirivieni senza dubbio didascalico, in alcuni tratti finanche prolisso, ma funzionale al mantenimento di un impianto rigoroso e geometrico che pone in dialogo gli estremi e le opposizioni simboliche: il pulito con lo sporco, il giorno con la notte, la verità con la menzogna. Una struttura stratificata che spesso risulta semplificata ma sostenuta da continui ribaltamenti di prospettiva, che giustifica un intreccio certamente non originale ma funzionale da una parte a mantenere alta la soglia dell’attenzione rispetto al desiderio di emancipazione e libertà di Aya-Amira, dall’altra a ribadire quanto corruzione, contraddizioni e falsità determinino ancora oggi lo stato delle cose in Tunisia.

Barsaoui ha dichiarato: «Con Antoine Héberlé, direttore della fotografia del film, abbiamo anche optato per due modi completamente diversi di riprendere il personaggio. Mentre a Tozeur, all’inizio del film, la macchina da presa è chiaramente organica ma piuttosto passiva – osserva, cattura e segue la protagonista nella sua quotidianità monotona – a Tunisi la camera cambia insieme allo sguardo di Aya, nel momento in cui diventa Amira. La macchina da presa smette di essere contemplativa e inizia a dirigere lo sguardo, diventando attiva, proprio come il personaggio. Anche la palette cromatica si trasforma: i toni spenti dell’inizio lasciano spazio a colori vividi e brillanti. Mentre la Tozeur di Aya rappresenta l’immobilità, la passività e la monotonia di una vita quotidiana noiosa, Tunisi è esattamente l’opposto, con la sua immensità, energia e vitalità. Aya idealizza Tunisi, fantastica su di essa. È una città in cui l’impossibile diventa possibile, permettendole di vivere il suo sogno». Pur smarrendosi nell’eccessiva tensione teorica e dimostrativa, il film di Barsaoui conduce lo spettatore là dove voleva arrivare: Aya non è più Amira, sceglie di essere Aicha, letteralmente viva.


