La genesi del cannibale: Antropophagus – Le origini di Dario Germani

È arduo e al tempo stesso intrigante confrontarsi con un (qualsiasi) testo filmico divenuto nel corso del tempo un classico. Nello specifico, Antropophagus di Joe D’Amato. Anno 1980 (per i suoi 45 anni è annunciata a settembre una nuova uscita in blu ray in versione sia normale sia deluxe). Uno dei capolavori horror generati dalla creatività di un autore nel suo periodo di massimo splendore, ovvero gli anni Settanta e Ottanta. A tornare a quel film, con un dittico ben diverso nella forma, nella narrazione e nei risultati, è stato di recente Dario Germani, regista ma soprattutto direttore della fotografia, realizzando nel 2022 Antropophagus II e nel 2024 Antropophagus – Le origini (in sala grazie a Flat Parioli, anche società produttrice). Il primo è un magnifico horror gore con storia minima e alta esplosione di macabro e efferatezze compiute da un serial killer cannibale sui corpi di un gruppo di studentesse e della loro insegnante in un bunker che fu rifugio antiatomico, labirintico e con un che di carpenteriano; un horror che aderisce al film di D’Amato nella sua più pura espressione di composizione materica delle immagini (con notevoli effetti speciali artigianali di David Bracci). “Mi sono concentrato sulla mattanza del mito degli anni Ottanta con tante sequenze gore e molto sangue – ha spiegato Germani – Da una parte c’è stato chi ha apprezzato il sangue e la ridotta narrazione, dall’altra chi invece ha sentito la mancanza di un legame diretto con il primo e unico Antropophagus. Così ho deciso di tornare sul tema legandomi in uno stretto nodo con l’originale”. 

 

 
Ed ecco Antropophagus – Le origini con il quale Germani si spinge tanto nell’immaginare la genesi del cannibale seriale Klaus Wortmann – andando a recuperarla fin nell’Ungheria dal secondo dopoguerra in poi in una serie di flash back, con tanto di date fondamentali per la storia ungherese, che si avviano in bianconero per proseguire a colori e che risultano forzati sia nei toni cromatici sia soprattutto nella spiegazione dell’esistenza della stirpe e del conflitto che si sviluppò tra i due fratelli Wortmann, allora giovani, Klaus e Bruno – quanto nel descrivere cos’è accaduto nel presente facendo seguito all’Antropophagus di D’Amato. Oggi. Hanna, figlia di Klaus, è ricoverata in ospedale in stato di shock dopo la morte del marito e accusata del brutale omicidio (nel corso del film si vedranno brevi flash back fino a comprendere cosa sia davvero successo nella camera da letto della coppia); è incinta e scappa in Ungheria dove si è stabilito il cugino Hugo, figlio di Bruno, che le spiega tutto quello che riguarda le loro famiglie e il loro essere cannibali, che lo si voglia o no. E Hanna scoprirà, scena dopo scena, che Hugo è ben altro da quello che sembra e che la casa che abita temporaneamente è un ulteriore laboratorio di torture e omicidi di cui lui è responsabile.

 

 
Alternando presente e passato, Italia e Ungheria – prima dell’epilogo in Grecia, dove Hanna si reca proprio, didascalicamente, a cercare Villa Wortmann e poi a sprofondare col neonato in braccio in una grotta-cripta per esplorarla e alla luce delle candele compiere un apparentemente ultimo rito sacrificale in quella che è la scena più intensa e visualmente migliore del film -, Antropophagus – Le origini (titolo internazionale Antropophagus Legacy, altrettanto esplicito nell’indicare il percorso diegetico desiderato e realizzato) consegna alla sceneggiatura un peso ingombrante, così come alla recitazione impostata, lasciando meno libertà e ruvidezza e tensione e disagio a quello che le immagini mostrano e che rendeva così sovversivo, “fuori dal tempo”, magmatico, Antropophagus II. Non esclude, Antropophagus – Le origini, citazioni cinefile e include inoltre un frammento del film di D’Amato (la scena sulla barca con Klaus, ovvero George Eastman, che uccide la moglie perché si oppone a che lui si cibi del figlio morto), anche in questo caso legando un ricordo, visualizzato, all’esplicazione di un pezzo di storia. Ma gli manca quel sano disgusto che il primo avvicinamento di Germani a Antropophagus conteneva e liberava per il piacere degli occhi e per una riflessione teorica sul cinema come corpo sul quale immergersi in personali autopsie visionarie.