Troppo sole, troppo soli: la solitudine è condizione ombrosa, funzione di una separatezza che nasce dalla mancanza di relazioni; un po’ come la solarità è una qualità che lavora nella sfera dell’apertura e della facilità relazionale. Nel mondo (distopico, ma già dietro l’angolo…) immaginato dalla regista svizzera Jacqueline Zünd in Don’t Let The Sun (in Cineasti del presente di Locarno78) i termini sono però inversi, conseguenza diretta di una realtà che ha scambiato la notte per il giorno: questione di sopravvivenza, dato che al mattino il termometro misura 49° e quindi l’umanità ha dovuto accettare di spostare alla notte ogni attività. All’alba l’annuncio che pervade le strade sollecita anziani e bambini a ritirarsi nelle case e evitare di rimanere al sole. Non che gli adulti facciano diversamente, del resto. Tutto questo si traduce in un mondo triste, circondato dalla solitudine, dall’isolamento di una umanità rintanata nelle case e incapace di nutrire la vita.

Jacqueline Zünd dispone la scena come un quadro astratto, in cui la distopia sociale disperde le briciole di vita nello scenario offerto dai caseggiati futuribili trovati nella periferia milanese e in quella genovese. Cementificazione architettonica alveare, che geometrizza la dispersione dell’umanità nelle anse della sopravvivenza metropolitana: ne sa qualcosa la piccola Nika, 9 anni vissuti all’ombra e con una madre che l’ha avuta senza un papà. L’assenza della figura paterna è anche l’assenza ulteriore di una possibilità di relazione che non sia quella esclusiva con la mamma, e allora la donna decide di noleggiare Jonah, 28 anni, che lavora per un’agenzia che offre interpretazioni relazionali: un figlio per l’anziana coppia che piange la morte del proprio ragazzo, un marito a cena per la giovane moglie che vorrebbe cucinare per quello che non ha e anche un padre per Nika. La quale in principio non sa che farsene ma poi impara a trarre giovamento dal tempo che trascorre con il ragazzo e finisce con lo spingere la loro relazione in una sfera affettiva che pian piano travolge Jonah e lo fa cadere in crisi.

Perché Don’t Let The Sun è un film che poi lavora proprio sul concetto di relazione, sullo slittamento progressivo dal contatto meccanico e meramente funzionale alla trasposizione empatica delle emozioni reciproche: la si chiami amicizia, amore, affetto, dipendenza… Partendo dunque da una configurazione distopica di matrice ecologista, la documentarista Jacqueline Zünd affida il suo primo film di finzione a una riflessione che insiste sulla potenza rigenerante delle relazioni, capace di scardinare le aspettative e travalicare le resistenze. Un po’ catatonico nella drammaturgia, Don’t Let The Sun è un film che in realtà costruisce con adeguata sincerità i suoi personaggi, che, per quanto caratterialmente un po’ squadrati, non mancano di mostrare una articolazione umana interessante. Resta in particolare la prestazione dell’attore e ballerino georgiano Levan Gelbakhiani, filiforme, elegante, un po’ surreale nella sua impassibilità keatoniana, che nel 2019 si era fatto notare nel film di Levan Akin And Then We Danced.


