Dracula corpo espanso, la cui volatilità è più un rischio che un potere. Partendo dal presupposto del who cares, ma assumendolo un po’ più alla lettera in senso progettuale di quanto la sua estetica stia magnificamente esercitando in questo decennio di assoluta confusione (storica, sociale, umana…), Radu Jude prende il conte vampiro della tradizione gotica mondiale, lo shakera con Vlad III di Valacchia, l’impalatore della storia transilvana, e con una quantità di derivazioni e derive tra folklore turistico, grottesco, burlesque, versioni letterarie autoctone e cinematografiche, e mette in campo quasi tre ore di un Dracula che a Locarno78 (Concorso) in un modo o nell’altro ha lasciato il segno. Non che il vampiro horror gli stesse particolarmente a cuore: più che altro è il frutto della frustrazione dopo Sesso sfortunato o follie porno, quando dinnanzi ai tentennamenti dei produttori, in fila dopo l’Orso d’Oro, ha finito per buttare sul tavolo quasi per scherzo un “Dracula Project” che in realtà non aveva… Il resto lo si immagina facilmente, anche se non è stata quella passeggiata produttiva che Jude si sarebbe aspettato, tanto che in una pausa forzata della lavorazione s’è inventato quel magnifico film back-to-back che è Kontinental ’25, limpido, potente, ironico e di coscienza – come, a onor del vero, questo pur geniale e eccessivo Dracula non è e probabilmente non intende essere.

Il patchwork goticheggiante porta alle estreme conseguenze la tecnica del disordine espressivo su cui Radu Jude si sta esercitando, con esiti spesso altissimi, in questi anni: qui l’assunto è dinamico e strutturale, perché tematizza il dilemma di dover fare un film su Dracula che il regista non avrebbe mai pensato di fare e s’inventa sullo schermo un giovare alter ego (è Adonis Tanța, visto anche in Kontinental ’25) che interagisce con un immaginario programma di intelligenza artificiale chiamato “Dr. AI Judex 0.0”… , al quale commissiona un film sul Vampiro, fornendo di volta in volta istruzioni che orientano la narrazione in differenti direzioni. E se si incorre in schegge di immaginario che digitalizza configurazioni tra gore e splatter, altre volte ci si abbandona al destino meschino di un Dracula finito in un cabaret burlesque in cui è offerto, assieme alla sua vestale, agli appetiti sessuali del pubblico pagante, pronto del resto a trasformarsi, dinnanzi ai limiti del suo vigore sessuale, in una folla furente che lo insegue per linciarlo. C’è poi la torsione nazi-zombie che scaturisce dall’elaborazione della matrice storica del vampiro seduttore, il sanguinario conte Vlad, il temuto impalatore del XV Secolo che sta nella storia nazionale come un eroe, ma anche la posa in opera del primo romanzo rumeno sui vampiri (Domnișoara Christina di Mircea Eliade) da cui scaturisce un po’ di sentimentalismo. E qua e là sprazzi di citazioni filmiche (Coppola, Murnau…) e eccitazioni porno tra la figurazione folkloristica, l’exploitation digitale da Intelligenza Artificiale, lo scherzo horror (tra Polanski e Morrisey)…

L’idea è quella di smaterializzare un mito ibrido e difforme già di suo, sospeso tra le terribili narrazioni nazionali legate a Vlad e l’elaborazione letteraria posa in opera da quel giovane scrittore irlandese di nome Bram Stoker, che sarebbe divenuta la matrice di immaginari cinematografici espressionistici e gotici. Insomma un mito vampirizzato dalle culture che lo hanno posseduto, disincarnarlo nella virtualità della sua natura exploitation asservita a una narratività meccanica. Un Dracula più sedotto che seduttore, più vittima che carnefice, degradato a corpo vile di una pornografia da teatrino popolare. Radu Jude maneggia questi elementi in leggerezza assoluta, senza volerne fare un trattato. Ma è evidente che il suo scopo è fare di un mito esclusivo come quello di Dracula, un corpo espanso nella dimensione popolare, negandone la tradizione verticistica, la nobiltà che lo relegava nel suo castello, temuto dal popolo, e trasformandolo in un povero fenomeno alla mercé dello sfruttamento popolare. Insomma un Dracula alla Jude, decantato e declassato, vittima di un destino scritto da quella società che al regista rumeno continua a sembrare sempre più l’unico vero mostro da temere.


