Una storia personale: Su Disney+ Jaws @ 50 e il classico di Spielberg

Il sottotitolo promette che l’excursus sarà “Definitive” e la prima domanda che il regista Laurent Bouzereau rivolge a Steven Spielberg è se effettivamente ci sia ancora qualcosa su Lo squalo che non abbia mai condiviso pubblicamente. Parte da questa premessa d’indagine Jaws @ 50, il documentario (visibile su Disney+) pensato per celebrare il mezzo secolo di vita del classico marino per eccellenza. Un tempo lunghissimo, durante il quale il film è già stato sezionato pezzo per pezzo da vari autori, primo fra tutti proprio lo stesso Bouzereau, che nel 1995 aveva diretto The Making of Steven Spielberg’s ‘Jaws’. Sulla sua scia erano poi arrivati In the Teeth of Jaws (della BBC, trasmesso nel 1997), Jaws: The Inside Story (di Rob Goldberg, del 2010) e The Shark Is Still Working: The Impact and Legacy of Jaws (diretto da Erik Hollander nel 2012), senza dimenticare libri come The Jaws Log dello sceneggiatore Carl Gottlieb e Jaws: Memories from Martha’s Vineyard di Matt Taylor (con un altro “Definitive” nel sottotitolo). Insomma, una legacy pressoché infinita, che giustifica il richiamo alle armi di Bouzereau: il regista francese, infatti, non è soltanto un fedelissimo dei reportage spielberghiani (ne ha diretti parecchi, per molti suoi film), ma è anche un narratore capace di rinnovare il mito della “prima volta” riportando il pubblico alle atmosfere amate attraverso materiali e interventi di qualità, alternati a un ritmo accattivante e anche abbastanza distante dal sensazionalismo pop della linea oggi più in voga, cui predilige invece narrazioni maggiormente lineari.

 

 
In questo senso, Jaws @ 50 è innanzitutto un documentario rassicurante, cui è piacevole abbandonarsi per ritrovare le atmosfere di quel 1975. Bouzereau lo comprende subito, offrendo una mole notevole di reperti d’epoca, che vanno dai filmati delle code davanti ai cinema, alle reazioni raccolte tra il pubblico, alle testimonianze degli artefici nelle trasmissioni televisive del tempo, agli home movies realizzati dai tecnici sul set, creando in tal modo uno spaccato fedele e immersivo rispetto al contesto della lavorazione, alternato alle testimonianze dei “sopravvissuti” (e per chi ormai non c’è più come Peter Benchley, autore del romanzo originario, arrivano in soccorso i reperti del precedente documentario). Un dato emerge come significativo: qualunque esegeta de Lo squalo conosce bene la storia dietro le quinte, con i problemi dovuti al malfunzionamento del pesce meccanico che hanno portato il film a sforare i tempi di lavorazione, accumulando oltre 100 giorni di ritardo fino a costare oltre il doppio del budget preventivato. Se finora questo aspetto era rimasto nel semplice campo dell’aneddotica, utile a rafforzare il tono “mitico” dell’opera, il documentario di Bouzereau lo inquadra sotto una nuova luce. Complice anche il tono più riflessivo e sincero rispetto alla sua vita (come testimonia il capolavoro The Fabelmans), Spielberg insiste infatti parecchio sui timori e le ansie legate a un disastro annunciato che rischiava di distruggere la sua carriera sul nascere, lasciando emergere la sua fragilità di uomo, prima ancora che la spavalderia del cineasta. Lo squalo che non funziona diventa così la metafora di un giovane autore al cospetto della prova della vita, mentre racconta l’odissea di un guardiano (lo sceriffo Brody) che cerca di tenere insieme i pezzi di una realtà che gli sfugge, fra i timori per l’acqua, la politica che lo serra ai fianchi perché non sparga il panico e una comunità che vive del commercio del mare, ma dallo stesso elemento vede arrivare la sua possibile distruzione.

 

 
Un classico racconto di ribaltamento delle certezze, figlio della disillusione degli anni Settanta, ma che oggi possiamo comprendere meglio come un tassello di un percorso autoriale nato sotto il camion di Duel e poi transitato tra le fauci del T-Rex di Jurassic Park fino alla prigionia nel campo di concentramento di Schindler’s List. Tutti “leviatani” e materializzazione di quell’ansia provata fin dalla sua epifania cinematografica con il treno di Il più grande spettacolo del mondo – il riferimento è ancora The Fabelmans – e che rileggono la carriera di un grande ottimista del cinema come una continua sfida ai propri timori. In questo modo, la grande celebrazione assume un tono intimo e personale, che Bouzereau inquadra con rispetto e partecipazione, facendone il trait d’union di tutto il racconto: sia quando punta il dito contro l’avidità dei produttori che vollero far partire il progetto anzitempo per capitalizzare sul successo del libro; ma anche quando illustra le feroci battute di caccia allo squalo innescate dal successo del film. Tutto ruota attorno a un’idea di empatia iscritta nelle insicurezze e cattiverie dell’animo umano, che a vari livelli questa storia di successo e sconfitta continua a portare alla luce. In questo senso l’esperienza, se non “Definitive”, è sicuramente capace di mostrare l’attualità e vitalità di un film che è molto più che un semplice pezzo di nostalgia, quanto un’opera che travalica il tempo e sa parlare a ogni epoca.