Si potrebbe dire che il nuovo film di Anne Fontaine sia una corretta e romantica biografia di Maurice Ravel, il musicista autore, tra l’altro, di una melodia che, come ci avverte la didascalia nel finale, viene suonata in qualche parte del mondo ogni quindici minuti. Il Boléro, che è anche il titolo del film, è il filo conduttore che unisce sotto il profilo sonoro e narrativo le due ore di durata. È attorno a questa melodia che il film prende forma. Una melodia incalzante che nasce come musica iterativa del ritmo di una modernità ormai avanzata – siamo sul finire degli anni ’20 del secolo scorso – e che si traduce nell’armonia ossessiva delle macchine industriali, del cui suono il piccolo Ravel restava affascinato quando il padre ingegnere lo portava con sé nelle visite alle industrie appena fuori Parigi. Il brano fu commissionato per un balletto dalla danzatrice russa Ida Rubinstein (Jeanne Balibar) e non pochi furono i problemi tra il musicista e la ricca ballerina, che intendeva ottenere un effetto erotico da quella musica che in realtà aveva avuto altre origini.

Ma in fondo in entrambe le accezioni il brano spopolò e non fu peregrina, nella successiva interpretazione di quella musica tra l’ossessivo e il delirante, quel profilo di sensualità marcata che ancora oggi ne caratterizza l’ascolto. Ci sono poi nella vita del musicista la madre, scomparsa al suo ritorno dalla Grande Guerra, Misia Sert (Doria Tililer) la donna che lo ha amato fino alla fine e di cui restò innamorato fin quando il suo equilibrio mentale glielo consentì e lei gli restò fedele, immaginando con lui il matrimonio felice che non ebbe con il marito. E ancora Marguerite Long (Emmanuelle Devos), pianista d’eccellenza e amica e un po’ “governante” del distratto Ravel. Il musicista morì nel 1937, dopo un’operazione al cervello per limitare i danni di una demenza che si era manifestata già, con lievi segni, ancora prima del 1928 anno in cui fu scritto l’opera musicale. È dunque corretta l’operazione che nel film resta evidente, quella di una biografia che traduca, seppur non linearmente (e in questo la scrittura della sceneggiatura diventa un crescendo in quasi assonanza armonica con il brano che le dà il titolo) la vita privata e pubblica di un artista, con le sue manie e il suo cupo sguardo sulla vita. In questo il lavoro di Raphaël Personnaz, che dà il volto all’artista, ci appare come un uomo sempre impeccabile e composto, mai abbandonato alle passioni, quanto invece trattenuto in ogni momento della sua vita.

Su un altro versante Anne Fontaine, come aveva già dimostrato in Coco avant Chanel: l’amore prima del mito, predilige un cinema sufficientemente patinato, dove la patinatura è evidente in una quasi maniacale volontà di colpire l’occhio con i suoi interni perfettamente ricomposti e i suoi esterni iconici, quasi a riprendere con la macchina da presa un mondo non più perfettibile. Neppure le brevissime sequenze di guerra con il sangue che macchia le lenzuola diventa cosa sporca sotto l’occhio della regista. Un mondo disegnato secondo i voleri dei suoi protagonisti che, nonostante gli sforzi di collocarli dentro un mondo che continua a vivere, macinando contraddizioni, modernità e sventure, come da sempre accade, restano confinati in uno spazio sempre ovattato e protetto dove, come nel carattere di Ravel, non ci sono mai scosse, mai forti emozioni, mai dolori laceranti o gioie durature. È in questa specie di pace quotidiana, dove però si consumano passioni e sofferenze, dove l’arte gioca un ruolo decisivo e dove il rapporto con i domestici è quasi alla pari, che il cinema di Anne Fontaine trova la sua dimensione: in quella sicurezza che non fa male, in quella pacificazione anche con la vita che di tanto in tanto non guasta.


