Donna, Santa e si chiama Teresa: Mother, di Teona Strugar Mitevska a Venezia82

È madre fin dal titolo che porta, trattandosi di Teresa da Calcutta, la nuova protagonista raccontata da Teona Mitevska in questa sua prima produzione in lingua inglese presentata in apertura della sezione Orizzonti a Venezia82. Ma il tema della maternità è finemente intrecciato alla vicenda storica e biografica della Santa (peraltro di origine macedone come la stessa regista), sia per il lavoro scolastico e educativo che porta avanti con i bambini della città indiana che nelle più complesse vicende che la narrazione porta avanti. Siamo nel 1948, momento capitale per il paese centroasiatico, con la partenza dei britannici dopo l’indipendenza raggiunta un anno prima – ma gioverà ricordare che è anche quello della morte del Mahatma Gandhi, quindi un perfetto periodo di turbolenze e passaggi. La giovane Teresa attende dal Papa il permesso per fondare il suo ordine monastico, mentre lavora nel convento di cui subisce la costrizione, con la sua vocazione che la vorrebbe in strada a soccorrere i bisognosi. Ugualmente, è lei a guidare le sorelle e a imporre una disciplina ferrea, che non teme cedimenti rispetto alla devozione verso i compiti, la fede e le rinunce terrene. Ma, e si torna alla maternità, la sua più vicina collaboratrice, suor Agnieszka è rimasta incinta dopo aver ceduto a un uomo che le è morto fra le braccia e ora Teresa deve confrontarsi con il triplice problema logistico (Agnieszka dovrebbe succederle alla guida del convento), umano e etico poiché l’aborto è pure una scelta in campo.

 


 

Su questo canovaccio che coinvolge tanto l’anima quanto il corpo, Mitevska racconta ancora una volta il conflitto tra la ritualità non compromissoria della religione e il doloroso vissuto personale, come nel suo più celebre Dio è donna e si chiama Petrunya, ma anche una vicenda di lacerazione e liberazione: la dicotomia fra Teresa e Agnieszka riflette infatti quella dentro/fuori il convento, tra la costrizione dei motivi architettonici descritti da quelle mura (violare le quali è peccato, anche con il pensiero) e la vita che pulsa e sfugge tra i corpi martoriati dall’indigenza nelle vie cittadine. In questo senso, le due donne sono anche due metà di uno stesso intero, la Santa inflessibile e la persona fragile che è corpo e ne vive le ansie, i dolori ma anche le speranze e le gioie del dare la vita (o del toglierla con un intervento chirurgico). Il film non a caso si muove bene su questi opposti, oscillando tra il sangue versato dai corpi, per malattia, mestruo o ferite, e la concretezza stolida delle mura. Si delinea ben presto una tensione di matrice horror, fatta di visioni, pareti che si muovono per schiacciare chi è nella stanza e deliri onirico-ossessivi accompagnati da Hard Rock Hallelujah dei Lordi. Gli anacronismi sono in effetti un altro elemento insinuante della narrazione, che parte dal ritratto storico ma, nella ricerca di una verità che sia intima e umana, svicola facilmente dai legami imposti dalla ricostruzione in senso stretto. Il tutto si racchiude in una settimana che procede a ritroso, dal settimo al primo giorno (anzi al “Day 0”), come un implacabile conto alla rovescia di un tempo breve, di passaggio appunto, ma pregno di significato e di conflittualità, in cui emerge una Teresa sfaccettata, al di là di ogni giudizio morale – di fatto il film preferisce non emetterli sulla sua persona, partecipando delle sue tribolazioni. Ottima in questo senso anche la prova di una ritrovata Noomi Rapace, altra figura perfettamente in grado di raccontare lotte e dicotomie fin dai tempi dell’originale Lisbeth Salander.