Non vuole essere il solito documentario celebrativo, questo Sangre del toro: lo ha specificato subito il regista Yves Montmayeur nella presentazione a Venezia82 all’interno della sezione Classic. Sin dall’inizio, il filmmaker francese ha infatti inteso raccontare la carriera di Guillermo del Toro senza la classica forma-collage con interviste di collaboratori e artisti che si sono sentiti in qualche modo ispirati dal lavoro del maestro messicano. Al contrario, l’intento è quello di partecipare dell’esperienza artistica così come la concepisce lo stesso del Toro, come un enorme labirinto – figura retorica che ritorna spesso nella sua filmografia – in cui ogni forma espressiva confluisce naturalmente nell’altra. Descrivere insomma un sistema di influenze reciproche dove il risultato è dato dalla raffinatezza della contaminazione. Lo spunto di partenza è facilmente fornito dalla mostra En casa con mis monstruos (At Home With Monsters) che si era svolta nella natia Guadalajara nel 2019, dove l’autore aveva esposto numerosi pezzi della sua collezione (conservata nella celebre “Bleak House” di Los Angeles) lungo un percorso che creava così un tutt’uno fra le sue opere e i libri, quadri e altri reperti artistici che lo hanno di volta in volta ispirato. Un percorso mentale che è iscritto nella storia stessa del regista, rievocata attraverso i suoi racconti che creano le dovute connessioni con l’infanzia in Messico e l’età adulta negli Stati Uniti dove ha trovato il successo.

Non è tanto questione di scoprire le varie epifanie che hanno portato del Toro verso i mostri e l’horror (da La stirpe dei vampiri di Fernando Mendes a La notte dei morti viventi di Romero), quanto di scendere all’interno di una cultura, quella messicana, che da sempre fa della contaminazione con il fantastico la chiave d’accesso a una vicinanza con la morte quale momento inevitabile dell’esistenza, in grado perciò di generare un’intrinseca bellezza che l’arte sa intercettare d’istinto. La selezione è senza distinzione fra generi e forme espressive: dalle celebri mascherate del dia de los muertos, immortalate da Ejzenstejn, fino alle imprese eroiche del mitico wrestler El Santo contro i mostri, si arriva così agli affreschi di José Clemente Orozco all’interno dell’Hospicio Cabañas. In particolare, il celebre Uomo di fuoco si scopre essere una matrice per i vari angeli della morte che ricorrono nella filmografia deltoriana – particolare che si rivela illuminante anche alla successiva visione di Frankenstein al Lido. Curiosamente a mancare è soprattutto il sangue evocato dal titolo. del Toro dichiara di non apprezzarne particolarmente l’evidenza (la vista anzi lo fa svenire): il suo campo d’indagine è piuttosto il corpo, la sua struttura meccanica e il senso di decadenza quale motore dell’esistenza e della sua fine, la discrepanza tra la cura che si pone verso l’esterno e il timore verso gli organi interni, che l’arte riesce anche in questo caso a elaborare a meraviglia.

Dal cinema di un idolo come Cronenberg si scivola così senza soluzione di continuità verso gli scorticati dell’anatomista Honoré Fragonard, le statue cadaveriche con organi, ossa, tendini e muscoli a vista, che fermano il decadimento del corpo nell’invenzione d’artista. Il lavoro di Montmayeur in questo senso riesce a collegare l’opera di del Toro a un immaginario più ampio e composito, dove il fantasma di porcellana de La spina del Diavolo si connette naturalmente alla cultura nipponica fatta di bambole e spiriti inquieti (c’è anche una testimonianza di Junji Ito a corredo). Ogni sequenza dei suoi film rivela alle spalle una ricerca, una conoscenza e una lucidità da parte di un maestro che continua a ritenersi allievo di chi lo ha preceduto e gli ha permesso di
conoscersi e comprendere il suo percorso con curiosità e stratificazione. Da Cronos fino all’ultimo Frankenstein (di cui non vediamo nulla, ma il romanzo di Mary Shelley e la sua eredità occupano in ogni caso l’ultima parte del film), il viaggio nel labirinto si rivela perciò accattivante e in grado di non rinchiudere le scelte dell’autore, quanto di dare forma a un’idea di cinema che suscita la curiosità verso tanta altra arte da (ri)scoprire e rimettere in circolo.


