L’utopia di annullare il dolore: La valle dei sorrisi, di Paolo Strippoli

È ancora un malessere interiore a opprimere i personaggi di Paolo Strippoli, a conferma di un percorso iniziato con coerenza in Piove: stavolta non siamo nella grande metropoli, ma nell’utopia del piccolo borgo di Fremis, La valle dei sorrisi (Fuori concorso a Venezia82), eponima e dispersa fra i sentieri boscosi del Friuli, dove tutti vivono la vita in letizia e i dolori dell’esistere sono cicatrici rimarginate, che non fanno più male. Lo sperimenta sulla sua pelle Sergio Rossetti, supplente inviato sul luogo subito dopo un evento traumatico che lo ha lasciato a pezzi. Proprio lì, fra il verde e i colleghi sorridenti, scoprirà cosa tiene a galla quell’oasi di felicità, il potere segreto incarnato in una persona – lo suggerisce chiaramente il titolo internazionale The Holy Boy – che è tanto venerata quanto sfruttata per ottenere il personale oblio del dolore. Lo spunto, fra Rod Serling e Ira Levin, si regge ancora una volta sulla conflittualità familiare, su un padre che ha perso un figlio e un altro che invece lo ha consegnato alla collettività per farne il perno attorno al quale costruire la vittoria della felicità sulle cicatrici dell’animo. La dialettica fra il personale e l’universale (in gioco entrano prepotentemente anche la scuola e la Chiesa) si ritrova nelle tragedie intime dei personaggi, in cui Strippoli e il fedele co-sceneggiatore Jacopo Del Giudice chiamano in causa senso di isolamento e estraneità, bullismo e affettività non ricambiate, sia nella sfera dei legami familiari che in quelle delle pulsioni innescate dalla pubertà e dei desideri amorosi visti come contrari all’ordine sociale.

 

 

Da lì lo sguardo si allarga, come in un meccanismo a cerchi concentrici, per farsi riflessione più ampia sulle dinamiche di fascinazione e culto di massa, tra isterismo collettivo – su cui insiste in modo particolare la parte finale – modelli educativi oppressivi e religiosità radicalizzata dal desiderio di ottenere una soluzione a ogni costo ai problemi personali. Il merito di Strippoli sta nel non retrocedere mai dal proprio intento, abbracciando questo male oscuro che non ha la forma della melma del film precedente, ma è palpabile, ossessivo, articolato tanto attraverso la fisicità dei personaggi, quanto mediante gli ambienti dell’azione – in un gusto generale abbastanza ricercato per le location, spicca il capannone in cui si consuma il “rito”, che ha una forma triangolare vicina alla casa a stella dell’esordio di A Classic Horror Story. Lavorando su un impianto figurativo che oscilla tra alcune iconografie più tipiche dell’horror (le figure immobili nello sfondo, i giochi d’ombra…) e una serie di riferimenti pittorici che guardano ai mostri dell’inconscio (il viso distorto alla Munch), Strippoli dipana una vicenda cupa e “chiusa” sui suoi drammi, che non cerca mai l’alibi dell’ironia, ma ha la forza di una progressione implacabile, in grado di parlare alla modernità dell’esistere seppur in una situazione “in vitro” come quella immaginaria del piccolo paese di montagna. Merito di una visione dell’horror che è finalmente sganciata dall’esaurirsi nelle estenuanti riverenze alla tradizione, cui preferisce invece un vissuto evidentemente sentito e coraggiosamente esposto, in grado di tracciare una nuova via italiana al genere, ben condivisa dal cast guidato da Michele Riondino e che conferma in particolare la figura di Romana Maggiora Vergano. Tra gusto per l’invenzione fantastica e ritratto sociologico e satirico interessato a scoperchiare il velo delle ipocrisie per dare slancio alla vita repressa dall’interesse collettivo, Strippoli lascia intravedere ulteriori sviluppi (il suo prossimo progetto è già in post-produzione), di cui non possiamo che continuare ad attendere i frutti.