Infanzia birmana per gli esuli del mondo: Lost Land, di Akio Fujimoto a Venezia82

Fra i vari esuli e migranti del mondo, che attraversano il mare e valicano i confini in cerca di ricongiungimenti e nuovi, possibili, futuri, sono i rohingya della Birmania a raccontare il loro dramma in Lost Land (Harà Watan), di Akio Fujimoto, presentato nel concorso Orizzonti di Venezia 82. Vittime della repressione dell’esercito che non riconosce il loro gruppo fra le etnie ufficiali del Paese, i giovanissimi Shafi e Somira (di rispettivamente 4 e 9 anni) vivono in un campo profugo birmano, ma sognano di raggiungere la Malesia per riunirsi a uno zio che la leggenda vuole abiti nelle vicinanze di un enorme albero di mango. Il viaggio, lungo 28 giorni scanditi da continui cartelli a schermo, parte da lì, attraverso il mare che separa la loro terra dalla Thailandia, per poi proseguire via terra verso la nazione finale, attraversando barriere e fuggendo dalla polizia. Nel mezzo c’è un gruppo che via via si assottiglia, fra arresti e trafficanti senza scrupoli che non si fanno problemi a toglierli di mezzo se non ricevono il denaro. Se dunque nella prima parte del racconto prevale una dinamica di gruppo, quando Shafi e Somira si ritrovano soli, la loro interazione si riprende la scena, bambini abbandonati che cercano conforto nel gioco e nella sopravvivenza come in un’opera di Hirokazu Kore-eda: l’ispirazione non a caso è da fatti reali, forniti dalle testimonianze di un cast di non professionisti (tra cui i due bambini protagonisti) il cui vissuto si intreccia alla finzione in una forma semi-documentaristica.

 

 
Macchina a spalla e dinamica del pedinamento si uniscono a una vistosa pastosità dell’immagine che si fa forza dell’apporto alla fotografia di Yoshio Kitagawa – un nome che crea ulteriore risonanze con il cinema di Ryusuke Hamaguchi o Takashi Miike e testimonia l’attenzione visiva prediletta da Fujimoto per illustrare le imprese dei suoi piccoli eroi. L’esperienza segue il punto di vista dei ragazzi, a tratti si fa rarefatta negli spazi notturni in cui bisogna correre per evitare le imboscate, in altri è più ragionata nell’interazione delle figure rispetto agli ambienti. La vicenda personale assume così carature sempre più universali quando i ragazzi, rimasti soli, si aggirano fra i resti di un mondo impoverito, tra sterpaglie e ruderi che rendono la loro vicenda quella di tutti i bambini del mondo feriti dalle guerre (da Gaza in poi). Ben presto ci si accorge che l’avventura in primo piano è la filigrana di una condizione primaria e anche per questo i due ragazzi assumono una caratura sempre più fantasmatica, i dialoghi diventano meno frequenti, il loro muoversi nel mondo (si pensi alla città del finale) sembra il vagare di spiriti inquieti e destinati a non raggiungere mai l’agognata stanzialità, anche quando sembrano aver trovato una famiglia disposta ad accogliere. La loro condizione è tipica di un popolo apolide in un mondo che non li riconosce e rende in questo modo il viaggio doloroso, ma anche poetico e capace di riverberare una sensibile attenzione.