Non poteva che stare nel Fuori Concorso della Mostra del Cinema un lavoro del genere, non poteva che fare parte di quel palinsesto così fuori norma (per citare un grande studioso del cinema a cui quest’opera così monumentale sarebbe piaciuta) un film come Director’s diary. Aleksandr Sokurov è già il nome di un artista altrettanto fuori da ogni concorso, fuori da ogni classificazione. Il suo cinema non appartiene a nessun genere e condensa tutti i generi, diventando summa di una qualità e di una natura a sé stante, tanto vive dentro una assoluta radicalità, che sta proprio nell’idea originaria del cinema di diventare dispositivo di connessione tra il presente e il passato di questa nuova arte. In altre parole il cinema di Sokurov si libera da ogni necessità di genere, da ogni esigenza narrativa, se si vuole, per alzare lo sguardo là dove pochi riescono a vedere. Per questo ultimo e, per concezione, imponente lavoro, il regista russo adopera le immagini per ricostruire più di un trentennio di storia. Director’s diary nasce dalle sue suggestioni riportate in un diario che diventa traccia costante di una cronaca in evoluzione e depositario di un proprio mondo interiore. Un lungo percorso storico che coincide anche con una gran parte della sua vita anche artistica, che sembra condensata negli intervalli in cui la sua mano verga con una stilografica sulla carta tracce di pensieri e di meditazioni.

Ma ciò che diventa essenziale e non superabile è che Sokurov in un’epoca in cui il flusso delle immagini viaggia ad una velocità incontrollata, in un’epoca in cui si è abbassata la soglia di attenzione di ogni pubblico lettore o spettatore, in un’epoca in cui i messaggi in rete si fanno sintesi di una già originaria sintesi, in un’epoca in cui le testate giornalistiche gareggiano in velocità determinando il tempo di lettura dei loro pezzi in un tempo sempre più breve, abbia realizzato un film-libro che dura 321 minuti mettendo alla prova non solo la resistenza degli spettatori, ma sfidando ogni legge corrente non scritta, inchiodando il tempo nel suo scorrere e prosciugando ogni volontà di velocità e di immediatezza. Questo film diventa gemello di Arca russa non solo per la sua ispirazione storica, ma quanto per la concezione artistica. Se quello era un film che era stato realizzato, titanicamente, tutto d’un fiato in un unico lungo piano sequenza, questo, altrettanto titanicamente, pur realizzato con i frammenti delle sequenze girate da altri, nel suo tempo dilatato raccoglie lo stesso desiderio di un racconto epocale, lo stesso amore per quella sua Terra, quell’Heimat direbbero i tedeschi. Director’s diary guarda alla storia della Russia, da un osservatorio importante come quello dell’amata Leningrado, oggi Pietroburgo, raccontando come in un libro, tante storie che ne formano una soltanto, quella di un grande Paese che ha attraversato la speranza politica di Lenin che è poi diventata dura dittatura, in un composito puzzle, in un bianco e nero a volte anche sgranato, come accade per le preziose immagini da archivio alle quali il film di Sokurov ha dato nuova e brillante vita salvandole dalla cancellazione della memoria.

Director’s diary è l’attraversamento di 34 anni (1957-1991) della storia russa dal regime comunista di Kruscev fino a quello trasparente di Gorbaciov, ma dove sembra mancare la grande storia, la appena passata invasione dell’Ungheria, quella di Praga, la caduta del muro di Berlino entrambi fatti solo annunciati dal parallelo scorrere laterale di brevi frasi che puntellano la narrazione principale, in una operazione che ricorda il Godard più ideologico. Sokurov non sembra avere voluto realizzare un compendio storico dell’ultimo ‘900, la sua non è la storia ufficiale, quella che si può leggere sui libri. Questa è piuttosto la sua storia, quella che nasce dalla sua osservazione, dal suo mondo artistico, dalla cronaca spicciola che riguarda la pervasiva presenza del potere, del regime nelle vite dei suoi abitanti, che riguarda la sua Leningrado e i suoi leningradesi come suggerisce la traduzione italianizzata dei sottotitoli (lavoro complicatissimo aggravato dal doppio binario narrativo). Director’s diary diventa un’opera al tempo stesso imponente e leggera, di facile leggibilità, anzi quasi didattica nella sua forma nella quale il tempo resta scandito da una specie di termometro laterale che ci avverte in che anno siamo.

Un film che scorre via anche velocemente a dispetto della sua quasi smisurata durata. In quelle immagini che nulla hanno a che vedere con il lavoro di rielaborazione che, ad esempio, in più occasioni ha compiuto il polacco Loznitsa, che cerca la verità nella estremizzazione di una filologia delle immagini conservate. Nel film di Sokurov vediamo le fabbriche e gli operai, la donna che vince il premio per la maggiore quantità di latte munto, vediamo anche Lenin in vita e defunto, impresso nelle statue e nei discorsi dei congressi. Sembra quasi che sfugga questa storia e il cinema diventi un fissativo eccezionale del tempo. È forse è proprio il tempo, ancora una volta, il protagonista di questo film come di molti altri, quel tempo che scade d’improvviso quando la stilografica cade sul foglio lasciandoci, ancora, paradossalmente, il desiderio di vedere e di capire.


