Il cinema è il Paradiso: a Venezia82 Divine Comedy di Ali Asgari

È divina dantescamente e sapientemente e ironicamente perché offre un adattamento girovago ma con le idee chiare, a bordo di una Vespa, in cui il poeta, o meglio il regista Bahram, quarantenne, un’intera carriera realizzando film in turco-azero, nessuno dei quali mai proiettato in Iran, è accompagnato da Sadaf, la sua produttrice, un Virgilio al femminile con la lingua tagliente, alla ricerca di una paradisiaca condizione che forse s’intravede. Bahram ha un nuovo ultimo film pronto e da presentare ma il Ministero della Cultura gli ha nuovamente negato l’autorizzazione, e questo lo spinge al limite della ribellione che lo condurrà ad intraprendere una missione clandestina per dare visibilità al suo film al pubblico iraniano, eludendo la censura governativa. E quindi è anche commedia, in riferimento all’assurda burocrazia stringente e limitante ma anche rispetto a quello che la vita è in grado di riservare, tra novità e insicurezze da superare, domande e progetti da realizzare. Questo Divina commedia di Ali Asgari, presentato in Orizzonti a Venezia 82, amplifica quanto visto e recepito nel precedente lungometraggio, Kafka a Teheran, film in cui il regista iraniano si interrogava drammaticamente sulle condizioni di vita di alcune persone di Teheran al cospetto delle autorità del paese.

 

 

Il film precedente impressionava per la cura, il rigore, la precisione e la pulizia estetica soprattutto per la capacità di riempire le sei storie raccontate in pochissime inquadrature, con la macchina da presa immobile e i funzionari statali lasciati fuori campo. Qui, poco dopo l’inizio, c’è una sequenza-episodio strutturata come nel film precedente: si fa riferimento all’opportunità di eliminare dal film la presenza di un cane perché ritenuto impuro, sconveniente secondo la legge morale-religiosa. È un breve e riuscitissimo episodio, carico di humor e non-sense che proietta l’intero film in una zona grigia, sempre al confine tra visibile e invisibile, lecito e illecito. Ci sono diffusi echi alleniani, tanto nell’attore protagonista quanto nelle atmosfere del film, riferimenti espliciti (se non citazioni) al Moretti di Caro diario, ma anche allusioni a Chaplin, Keaton, alla comicità corporea di Benigni benché il film sia radicato nel realismo poiché riflette la statica e soffocante burocrazia iraniana in cui è intrappolato il protagonista. Lo straniamento del protagonista è anche quello dello spettatore che, come dichiarato da Asgari, «sperimenta in prima persona la lenta routine della censura. I registi Bahram e Bahman Ark, che hanno dovuto affrontare la censura, interpretano versioni romanzate di sé stessi. La loro presenza è una dichiarazione metatestuale sui temi del film. Allo stesso modo, Sadaf Asgari – a cui è stato vietato di lavorare in Iran dopo aver partecipato a Cannes per Kafka a Teheran – apporta un’autenticità sovversiva interpretando sé stessa. L’umorismo non nasce dalla commedia, ma dall’assurdità della repressione. Il complicato sistema di censura crolla sotto le sue stesse contraddizioni. I personaggi rispondono con sarcasmo e arguzia silenziosa: umorismo come resistenza laddove la ribellione è pericolosa. Realizzare il film è di per sé resistenza. La verità aleggia nei silenzi, nelle risate in momenti inaspettati. Uno studio sulla resistenza, l’osservazione e il rifiuto di scomparire, l’immagine finale del film – un cane che osserva senza battere ciglio – ci ricorda il potere del cinema di portare testimonianza». Divina commedia si trasforma presto da leggero film sovversivo a opera politica che riflette sullo sguardo come strumento di impegno civile, in grado di rileggere con arguzia lo stato delle cose e l’importanza dell’arte come mezzo di partecipazione e condivisione consapevole. Un film libero, importante proprio per questo, che non manca di lasciare sgomenti nel finale quando solo il silenzio è in grado di comunicare ciò che l’immagine rivela.