The Smashing Machine di Benny Safdie: anche i guerrieri piangono

Scritto e diretto da Benny Safdie (svincolato dal fratello Josh, in coppia con il quale ha realizzato, tra gli altri, Good Time e Diamanti grezzi), The Smashing Machine, in concorso a Venezia 82, ricostruisce la parabola sportiva di Mark Kerr, uno dei pionieri e più grandi campioni di MMA (Mixed Martial Arts), ai tempi in cui sul quadrato valeva (quasi) tutto. È nella seconda metà degli anni Novanta che Kerr, proveniente dalla lotta libera – praticata con risultati eccellenti a livello universitario – esordisce nel circuito professionistico delle arti marziali miste, distinguendosi immediatamente per la brutale essenzialità e la rapidità delle sue vittorie. Non che provi sadica soddisfazione nel picchiare, ma è perfettamente consapevole che l’alternativa, dal momento stesso in cui ha scelto di battersi, è essere picchiato e subire danni. E quest’ultima è un’eventualità che “the smashing machine” (ovvero la macchina distruttrice, espressione pregnante già a livello sonoro, un’onomatopea che evoca immagini di dominio e devastazione) non prende nemmeno in considerazione. Come risulta evidente dall’atteggiamento che assume di fronte alle già di per sé imbarazzate domande postegli da un giornalista giapponese, quando era un imbattuto campione nella categoria regina dei pesi massimi: ebbene, il fighter originario dell’Ohio non riesce nemmeno a dare un nome all’ipotesi, a immaginare la situazione a livello teorico.

 

 
Avrà modo di farlo in seguito, quando incappa nei primi rovesci, ma faticherà comunque ad elaborare la sconfitta, perché la sua mente è programmata altrimenti, renitente a sintonizzarsi su lunghezze d’onda estranee. Sul piano narrativo, Safdie si tiene lontano dal biopic tradizionale, adottando una prospettiva laterale (con pochissime informazioni sul soggetto) e un ritmo sincopato, caratterizzato da quadretti quasi statici e improvvise accelerazioni. Lo svolgimento integra i consueti cliché della pellicola incentrata su un atleta di sport da combattimento, sulla falsariga della scansione impostasi con Rocky e rimasta quale sorta di canone a cui la stragrande maggioranza degli epigoni, e delle variazioni sul tema, raramente si sottrae: vita privata-allenamenti-match-cadute-riscatto. Ciò che cambia, nella traiettoria di Kerr e, soprattutto, nella ricetta rielaborata dall’autore, sono la consistenza e il dosaggio degli ingredienti. E se l’estetica che ricorda i documentari (fotografia desaturata che tende talvolta a sgranarsi, luce fredda) non è certo un inedito per il genere (da Toro scatenato a The Wrestler), non lo è nemmeno l’ampio spazio assegnato al privato, che mette a fuoco la relazione sentimentale destabilizzante con la fidanzata (poi moglie) Dwan Staples. Una figura femminile, questa sì, decisamente singolare. Non donna in attesa, che sa essere rifugio e consolazione, ma neppure angelo nero, fonte di dannazione: Dawn aspira piuttosto a un ruolo da co-protagonista, chiede la parità, non accontentandosi di essere il giocattolo del campione destinata a rimanere al suo posto, dietro le quinte, in attesa di una chiamata. Al contrario, rivendica spazi e attenzioni con un’insistenza disarmante, fonte di continue tensioni col suo uomo, che però reagisce alla petulanza solo quando è esasperato, comunque prendendosela con le cose (le povere porte di casa, in particolare) e mai direttamente con lei.

 

 
La lotta con Dawn è però più sfinente di quella sul ring, perché rompe la connessione tra mente e corpo, lasciando Kerr in una condizione di estrema fragilità, che lo penalizza in diverse occasioni. Grazie all’approccio di “empatia radicale” degli attori con i personaggi, viene ben rappresentato il cortocircuito tra corpo e mente che a un certo punto ingolfa il motore della “macchina”, favorito dall’abuso di oppiacei. E che lo fa cadere in un tunnel, per uscire dal quale servirà uno stacco secco e maggiore serenità, una terapia che dà infine buoni risultati, sebbene l’apice di carriera sia ormai alle spalle e occorra riposizionarsi abbassando le aspettative. Non è un caso, che a commentare le tante pagine di vita quotidiana – ora sottolineando ovvero facendo da contrappunto, ora sdrammatizzando ma talvolta enfatizzando – ci sia una colonna sonora densissima, abitata da brani come My Way (in due versioni, rispettivamente di Frank Sinatra ed Elvis Presley, a differente gradazione di malinconia), That’s My Desire di Hadda Brooks e, soprattutto, Jungleland di Bruce Springsteen, uno dei vertici lirici della produzione del Boss (la traccia conclusiva dell’album Born To Run, capolavoro del 1975), che canta di un amore disperato in una straniante giungla d’asfalto.

 

 
Al primo ruolo drammatico della carriera, Dwayne “The Rock” Johnson (affiancato da Emily Blunt, perfetta nel mix di orgoglio, egoismo e civetteria che esprime), non si colloca troppo distante dalla zona di comfort, lui che prima di diventare interprete di action-movie e commediole è stato un celebre wrestler: si gioca bene le sue carte, conferendo al personaggio inaspettate sfumature, anche oltre la fisicità impattante. Safdie lo impegna invero fuori dal ring, per la maggior parte del film; e quando lo chiama alla battaglia, gli chiede ad ogni modo asciuttezza, essenzialità, una spettacolarità contenuta. Che si estende a tutti gli attori impegnati nelle scene di lotta, tra cui spicca per arguzia e ironia (il guanto di velluto che veste un pugno letale) il formidabile pugile ucraino Oleksandr Usyk, attuale e imbattuto campione unico dei pesi massimi, che si cala disinvolto nei panni del connazionale Vovchancyn, tostissimo avversario di Kerr. Mezzo punto in meno, in un punteggio più che buono, per il cedimento al vezzo parecchio diffuso dell’appendice contemporanea, quando il vero Kerr prima si sovrappone, e poi incontra (una situazione replicata a Venezia) quello della finzione.