Questa non è una normale recensione. Non può, e non vuole essere, una normale recensione. Prima i fatti, che grazie a questo film sono ormai negli occhi di molti, sono a disposizione di chi vuol vedere. È la mattina del 29 gennaio 2024 quando, negli uffici della Mezzaluna Rossa con sede a Ramallah, arriva una telefonata. In quel giorno si sgomberava una frazione di Gaza Nord e una macchina piena di persone – due adulti, i loro quattro figli e la piccola nipote – cercava di raggiungere una zona sicura. La prima telefonata, interrotta su una raffica di spari, è di un’adolescente che cerca di segnalare una posizione. La seconda, dopo segnalazioni di fortuna effettuate da parenti, ha la voce di Hind Rajab. Hind ha meno di sei anni e chiede aiuto, tutti i suoi parenti, gli occupanti della macchina, sanguinano e sembrano dormire. Hind è sola e chiede, come è ovvio per una bambina, solo di essere salvata, accudita, prelevata dall’orrore. Kaouther Ben Hania – regista tunisina con un pedigree di selezioni importanti – trova le registrazioni, messe in rete dalla Mezzaluna Rossa, e decide di mollare ogni altro progetto per testimoniare (chissà come) questa storia. The Voice of Hind Rajab (Leone d’argento – Gran Premio della Giuria a Venezia82) nasce così, come un’urgenza. La messa in scena è, per quanto possibile, sobria. Si svolge tra le quattro mura dell’ufficio della Mezzaluna Rossa che, a distanza cerca di organizzare il salvataggio. La trama (trama…) è semplice: una manciata di personaggi che deve sollecitare, coordinare, organizzare, sanificare le operazioni di soccorso. Il primo contatto con la bimba è il fragile Umar, che chiede – in un sussulto di semplice umanità – di velocizzare l’intervento potenzialmente salvifico.

Rana è sfiancata da turni impossibili ma di fronte a quella disperata richiesta di aiuto dimentica sonno e stanchezza. Nisrin è una psicologa che è costretta a occuparsi più degli operatori umanitari che delle potenziali vittime. Mahdi è il responsabile del coordinamento, prima vittima di un circolo vizioso che, oltre all’incolumità delle vittime, deve preoccuparsi di quella dei soccorritori. Un paio di stanze, quattro personaggi, un telefono (e poi, molti telefoni) e una voce, sconvolta disperata malferma, che chiede aiuto. Aiuto e ancora aiuto. Togliamoci subito il dente: The Voice of Hind Rajab non è un film che si esaurisce nel suo significato politico – che è molto più che politico, è la testimonianza diretta di una massacro disumano – né si esaurisce nella sua forza di denuncia, per quanto gigantesca. Ben Hania usa anzi forme raffinate, per quanto semplici, di messa in scena. Chiude i suoi personaggi in una stanza/gabbia, escluso un breve prologo en plein air, e li mette a confronto con l’esplosiva registrazione originale. Li costringe, li sovrasta, li incenerisce. Usa ogni forma didascalica con consapevolezza, dicendo il necessario. Non usare la vera registrazione della voce di Hind sarebbe stato – quello sì! – un tradimento dell’intenzione originale. Ben Hania piega i suoi attori a un continuo tour de force in equilibrio tra ragione e sentimento, sovrapponendo il loro frammentato punto di vista a quello di noi che osserviamo, che per una volta non possiamo – come mai dovremmo – distogliere lo sguardo.

Ben Hania ha la responsabilità di costruire un film in cui sia sempre chiaro che l’oggetto della narrazione non è “ispirato a fatti realmente accaduti”: è la cronaca di fatti realmente accaduti. Nessuna forma ricattatoria, nessuna lettura a doppio binario, nessuna lacrima non necessaria: The Voice of Hind Rajab si manifesta in quello, e solo in quello, che racconta. L’etica dell’immagine, per quanto ampiamente rispettata, si uniforma all’etica dell’umano. E se c’è ancora un modo di fare cinema politico – ora, oggi, adesso – forse è questo. Un cinema in cui l’urgenza si manifesta nelle scelte estetiche quanto in quelle che impone il nostro presente. E se, puntuali come la morte, sono esplose voci negative – alcune rispettabili, altre ai limiti dell’osceno – ci sentiamo invece di accogliere questo film come un atto di cinema umanitario, illuminista, civile. Un cinema che, rivendicando un linguaggio puntuale e antiretorico, sappia ancora essere filtro e specchio dei nostri giorni, delle nostre emergenze, delle nostre colpe. Perché, parafrasando e confutando Ford, ogni tanto, tra la leggenda e la realtà è sano, giusto, morale, stampare la realtà.


