Danzare con la morte, respirare polvere, masticare sangue, chiudere. Un ritratto anomalo e sfuggente che mostra il carisma di un giovane torero rispettato, atteso, guardato e osannato al pari di una divinità. Lame e lacrime, oro e silenzio, applausi e terrore. Un’arena, un’automobile, una stanza d’albergo e il sottile file dell’esistenza. A ben guardare Pomeriggi di solitudine (Tardes de soledad), il nuovo progetto di Albert Serra, è un film che vuole fare i conti con l’esilio della fine: un documentario fissato su pochi attimi della vita di Andrés Roca Rey, giovanissimo torero, il migliore in circolazione. Non tanto per celebrarne il talento o il divismo, le abilità o l’ostinato orgoglio, quanto per sottolineare il continuo confronto con il limite del vivere, la fragilità dell’esistere, l’impossibilità a scavalcare l’oltre, alla ricerca di una persistenza. Un’ostinata lotta contro il tempo alla ricerca di un segno che lo renda immortale. Con Pomeriggi di solitudine Serra segue il solco delle opere precedenti inseguendo l’idea di poter rappresentare – riuscendoci drammaticamente per la prima volta con la forma documentaria – le contraddizioni e le ambiguità generate dal potere che sempre acceca e abbandona, stordisce ed esalta.

Accadeva già con Honor de cavalleria rileggendo il Don Chisciotte, di riflesso si percepiva in El cant dels ocells dove la fuga (dei Magi e della sacra famiglia) era generata proprio dalla cecità del potere e, in modo ancora più evidente, si manifestava sia nel dittico dedicato a Luigi XIV (La Mort de Louis XIV, Roi Soleil), sia nei film in cui il regista catalano si lasciava interpellare dalle derive della libertà (Història de la meva mort, Liberté). Come scrivevamo a proposito di Pacifiction, «Serra gioca con materiali candidi e pesanti allo stesso tempo», propone un cinema immancabilmente sfuggente e limpido, «una cartolina dalla fine del mondo, con sullo sfondo un invisibile fungo atomico: perifrasi per dire, senza nemmeno saperlo, il baratro su cui stiamo tutti evidentemente danzando». La scelta del passaggio al documentario sorprende anche se la tensione del suo cinema è sempre stata quella di seguire, osservare e documentare lo sfinimento del mondo, la sua caducità, il limite intrinseco attraverso lo smantellamento del senso, la devastazione dell’ordine fissando le immagini e chiudendole all’interno di sistemi chiusi e asfittici.

Atipico nella struttura, il film di Serra vuole catturare il vero dentro il mondo-corrida evidenziando subito il conflitto tra verità e finzione in quello che è da sempre mattanza-dialogo impari tra uomo e animale e nega la dimensione più colloquiale dell’intervista per spingersi verso quella meno visibile dell’introspezione psicologica. Il rito, la cura e l’esaltazione del corpo, il rapporto con la celebrità e il fantasma della follia della sfida prevalgono sulla denuncia della crudeltà e della violenza o sulla sua apologia: Pomeriggi di solitudine resta in una zona d’ombra inafferrabile ad ogni etichetta. Inquietano tanto le reiterate inquadrature in cui il torero stremato si siede in auto al termine della corrida con la fissità della macchina da presa a rimarcare il vuoto e l’esaltazione orgasmica, quanto le urla di celebrazione del pubblico, praticamente sempre fuori campo e quindi in via di estinzione, ancora misteriosamente e inesorabilmente acclamante gli spettacoli di tauromachia. La morte del toro, con le sue ferite, il suo sangue, la sua bava, le sue lacrime, il suo respiro, è sempre in campo. Dentro questo sistema chiuso di ritorni e ripetizioni, si assiste alla messa in scena di una vera e propria kenosi, uno svuotamento consapevole, una forma di sacrificio estremo in virtù di un umile servizio per la causa in cui la figura glabra e magra di Andrés Roca Rey (attore e torero), il suo corpo leggero e energico (che costringe ed esibisce), si muove alla perenne ricerca di un equilibrio nella solitudine: una bellezza elegante e sfacciata, esposta ad una voragine di abbandono e angoscia che restituisce al mondo l’immagine di un eroe di un mondo sommerso, maschera di un teatro dell’assurdo che lo vorrebbe in vita ma che, tragicamente e in maniera grottesca, si eccita e gode nel vederlo lottare con la morte.


