Honey Don’t!: Margaret Qualley nell’hard-boiled rivisitato di Ethan Coen

Deserto della California. Una donna in pantalone leopardato scende ai bordi della strada: una macchina giace rovesciata con al suo interno un corpo ormai senza vita. La donna, niente affatto sorpresa, si inginocchia e dalla mano della morta toglie un anello con una forma particolare. Scopriamo presto che quella forma è il logo di una chiesa – il Four-Way Temple – in cui il “prete padrone”, il Reverendo Drew Devlin, si diletta abusando delle adepte e trafficando droga. Il caso vuole che la vittima dell’apparente incidente dovesse incontrare quello stesso giorno un’investigatrice privata che inizia a indagare su quella coincidenza. L’investigatrice è Honey O’Donahue che entra in scena alzandosi dal letto di un’amante occasionale e raggiungendo il luogo del “delitto” con tacchi vertiginosi e vestito rosso floreale, dove viene accolta da un detective della squadra omicidi che la corteggia e al quale lei risponde sempre, tagliando corto: “I like girls”. Honey Don’t! è il secondo capitolo di una progettata trilogia di B-movie a sfondo lesbico progettata da Ethan Coen e sua moglie Trisha Cook – coautrice a tutti gli effetti – e arriva a un anno di distanza dal precedente Drive-Away Dolls, con cui condivide la splendida protagonista, Margaret Qualley. Se in Drive-Away Dolls Qualley interpretava una giovane libertina finita per sbaglio in un delirante complotto politico con piglio da commedia screwball, qui incarna una rivisitazione di un canone dell’hard-boiled, il “poliziotto privato” dalla battuta sempre pronta, incarnando allo stesso tempo il ruolo con un fisico da classica dark lady: un ribaltamento di genere che è forse il pregio maggiore del film.

 

 

L’estetica, allo stesso tempo laccata e grezza, ultracolorata e pop, omaggia gli anni Settanta; la scrittura di Coen e Cook è certo brillante ma spesso fine a sé stessa, preoccupata di mostrare sagacia ma non sempre sufficientemente centrata né per dare spessore ai personaggi né per creare una costruzione narrativa capace di tenere in piedi la storia. Honey Don’t! si limita a mettere in scena una sequenza dietro l’altra – in maniera non sempre congrua e sufficiente per costruire una variante pop del neo-noir – riuscendo solo in parte a sollevare il film da quella che appare una bizzarra medietà. Qualley, certo, regge il film quasi da sola: è abbagliante, ironica, credibile nella sua versione lesbica di un personaggio storicamente caratterizzato da venature macho; ma la continua ricerca del divertissement, a tratti sanguinolento quanto basta per essere un B-movie come si deve, si annacqua nella definizione di un plot credibile e nella profondità dei personaggi.

 

 

Non bisogna chiedere troppo, certo, a quello che è consapevolmente un esercizio di stile teso a rendere contemporaneo un oggetto che sa di vintage, però l’assenza di complessità sfocia in una certa superficialità diffusa. È impossibile non ripensare a quando Ethan e suo fratello Joel riuscivano a fondere un cinismo ridanciano – quasi un dolente nichilismo – con una ben precisa visione del mondo che davvero, incontrando il genere, specialmente il noir, ha contribuito a rinnovarlo. Honey Don’t! è puro, brillante intrattenimento sfacciatamente fine a sé stesso. Un giocattolo luccicante ma inerte, di cui si rischia di stancarsi presto.