Lo spunto è un fatto di cronaca, assai familiare per chi ha vissuto gli anni Sessanta e magari sconosciuto per chi ha attraversato con noncuranza quel periodo. Di certo chi lo ricorda non sarà insensibile alla storia del nobile Camillo Casati Stampa e di sua moglie: serate di gala e trasgressioni personali, jet set e scopate nascoste dietro l’obiettivo di una cinepresa e di una macchina fotografica. Quando “Camillino”, che aveva spinto – si erano spinti – sua moglie a far l’amore, spesso pagando, con sconosciuti e passanti, scoprì che la “sua” Anna era capace di sentimenti che vivevano fuori dal loro rapporto, ha terminato il processo con dei colpi di fucile, per sé e per gli altri. L’interesse morboso per la vicenda è stato manifesto: un nobile viveur, una donna bellissima disposta a stare – a vivere – un gioco a quei tempi considerato perverso, un contesto affine ai rotocalchi dell’epoca freschi di stampa. E il gusto per una pura e semplice exploitation era il rischio più evidente nel progetto di una trasposizione cinematografica. E invece! Andrea De Sica, che sui lati oscuri delle fasce privilegiate della nostra società indaga da sempre (recuperate il suo esordio, I figli della notte), riesce a ribaltare il gusto morboso di un racconto del genere facendone oggetto di riflessione sentimentale e di teoria del cinema. Sostituendo i nomi – lasciando però testimonianze della storia reale, non temendone il confronto, anzi assorbendone il senso – De Sica isola il racconto in quello che era il buen retiro della coppia, porta tutto il narrato su un’isola Pontina che incornicia e sostiene il racconto.

Lelio ed Elena (i Camillo e Anna della finzione) si conoscono in una delle mitiche feste del Marchese. Entrambi sposati, si annusano e si riconoscono, si pensano capaci di affrontare tutto per condividere tutto: lasciano entrambi i loro coniugi – con annullamenti della Sacra Rota comprensivi e generosi – e instaurano nuove regole d’amore nei già liberi anni Sessanta. Lelio ama Elena, Elena ama Lelio. Ma Lelio vuole vedere Elena amare altri, ed Elena ama – ama? – farsi vedere da Lelio mentre ama altri. Il patto è chiaro, le conseguenze meno. De Sica isola ogni interazione nel paradiso costruito di questa casa sull’isola, occhi piantati di fronte al mare. E plasma quella forma deviata e non conforme di desiderio con un paesaggio misterioso, inconoscibile, affidato a un pontile vittima delle mareggiate e a battute di caccia dove animali inaspettati determinano la carnalità delle situazioni. Non c’è unità di tempo – si va dal 1960, in pieno boom e in piena ebbrezza di ricchezza, al 1970, quando all’allunaggio si sovrappongono nuove istanze e nuovi conflitti sociali – ma c’è unità di spazio. La vita della strana coppia si evolve solo nelle stanze di quella casa al mare, fatta di nicchie – inquadrature dentro altre inquadrature, sguardi dentro altri sguardi, cinema che si riflette – e di supposta libertà.

Il desiderio comanda, il ridicolo è sempre sull’orlo di tracimare, la tragedia sembra in perenne attesa. Gli occhi degli altri, grazie a una regia essenziale ed elegantissima, distilla l’essenziale – anche quello malato – del desiderio; riempie di tensioni hitchcockiane uno spazio lussurioso e allo stesso tempo costrittivo (e anche la colonna sonora, implacabile, di Andrea Farri, si colora di tinte nere, à la Herrmann); usa al meglio l’impegno generosissimo degli interpreti (Filippo Timi e una splendida Jasmine Trinca – mirabilmente “santa e puttana”, perfettamente in parte – oltre che gli ottimi comprimari, ospiti complici di quel mondo gioiosamente alla deriva); costruisce un originale horror dei sentimenti; utilizza la metafora del cinema come ossessiva compulsione dei corpi. La memoria è nei filmati, ogni tradimento – pulsione, voglia, atto d’amore – è oggetto di riprese, nel mirino di una cinepresa che vale come i fucili che attraversano il film. La memoria è – oggettivamente – un filmato, da proiettare come rêverie e come vendetta, come atto di amore o come violenza sul corpo. Gli occhi degli altri è un’opera sorprendente, di cui scopriamo di avere bisogno, anche per gli accenni mai didascalici al valore contemporaneo di un discorso sul possesso sentimentale e che invece, volando come un alieno, ragiona sulla nostra forza di amare all’interno di un mondo di sopraffazione emotiva.


