Ellroy vs L.A. di Francesco Zippel e il caos in paradiso

Chiunque abbia incontrato James Ellroy sa che vive nel passato. Non guarda la tv, non legge i giornali, non va al cinema, non ha Internet, frequenta praticamente solo ex poliziotti con i quali parla di vecchi crimini. Da sempre afferma di non avere nessuna opinione su ciò che avviene nel mondo (non è vero ma va bene lo stesso). Di fatto lui è bloccato negli anni Cinquanta e dintorni. Ed è proprio lì che lo riporta Francesco Zippel (Sergio Leone – L’Italiano che Inventò l’America, Volonté – L’Uomo dai Mille Volti) per Ellroy vs L.A (al Roma Film Fest, nella sezione Freestyle): «ho voluto creare una vera e propria conversazione immaginaria tra Ellroy e Los Angeles, un dialogo continuo in cui la città risponde, ribatte, a volte smentisce, a volte amplifica le parole dello scrittore. Ho cercato questa voce della città dentro i film, nei materiali d’archivio, nelle immagini che portano in sé lo spettro di un’epoca o di una memoria collettiva». Il film ha una struttura semplice e forte: Ellroy monologa seduto frontalmente, i Calibro 35 (che suonano dal vivo) legano le parole dello scrittore e le immagini della città e dei suoi abitanti. Con spezzoni presi da servizi tv, cinegiornali, foto di giornali e film, di genere, che hanno nutrito l’immaginario del giovane James: «siamo qui per parlare della mia patria avvolta dallo smog». Ellroy nasce a Los Angeles nel 1948 da una madre infermiera e un padre contabile (un poveraccio con la testa piena di sogni assurdi).  Quando James ha sei anni i genitori divorziano. Va a vivere con la madre che nel 1958 scompare. Viene ritrovata morta (e nuda). L’assassino non verrà mai rintracciato. Va a stare col padre, a scuola è un disastro, viene spedito nell’esercito. Il genitore muore nel 1965.

 

 

Ellroy, da solo, sbarella. Ci dà dentro con la metanfetamina, vive di furti, finisce in galera. E legge. Tantissimo. Nel 1975 ha una grave infezione ai polmoni, deve darsi una calmata, trova lavoro come caddie in un campo da golf e inizia a scrivere seriamente. Nel 1981 esce in Usa Prega detective. Il mondo sta per scoprire un grande scrittore. E un impagabile personaggio (l’ho incontrato quattro volte e penso sia un genio dell’autopromozione per dirla con Lemaitre). Nell’incipit di Ellroy vs L.A. se ne esce subito con le sue sentenze: «Sono il mastino letale dal morso letale» , «sono il gufo brutale dal grido mortale». E poi continua«è fantastico inventarsi il passato», «l’accuratezza fattuale non mi smuove di un millimetro»…Il film è stato girato nel 2024 quando Ellroy aveva da poco pubblicato Gli incantatori (terzo capitolo del nuovo L.A. Quintet, dopo Perfidia e Questa tempesta; nel 2026 arriva Red Sheet con Freddy Otash che nel 1962 è a caccia di comunisti e deve tenere Nixon lontano dai guai). La serie, come sempre nella sua opera,  fa convergere storia criminale e istituzionale, miscela figure storiche e personaggi fittizi mescolando realtà e finzione. Fonde romanzo poliziesco e storico in nitidi e spaventosi affreschi d’epoca e il suo orizzonte, a partire dal numero dei personaggi (in Gli incantatori sono 52, in Perfidia 67, in Questa tempesta 92) è d’ampiezza biblica (felice definizione di Norman Rush). L’intento, come illustra chiaramente in Ellroy vs L.A. è di riscrivere la storia della città intrecciandola a quella del Paese.

 

 

James Ellroy ha abitato a Hollywood Hills, Los Angeles, fino alla fine 2015. Poi si è trasferito a Denver in un appartamento al fianco di quello della compagna. La distanza non ha attutito la sua ossessione per la città. Anzi. Si pensi solo al libro fotografico Un anno al vetriolo – Los Angeles Police Department, 1953 (Contrasto, pag.207, euro 24,90), scritto in coppia con l’ex poliziotto Glynn Martin. Ellroy commenta foto di scene del crimine e si interroga sulla città più provocatoria d’America che si è meritata la forza di polizia più provocatoria d’America perché «il salario del peccato è la morte».
Francesco Zippel lavora splendidamente sulla scelta degli spezzoni di film da inserire sopra la voce dello scrittore e il suono della band. Non manca Lo straniero (1946) di Orson Welles, ghiotta occasione per inserire il solito giudizio salace: «non mi è mai piaciuto Orson Welles, pensavo fosse pieno di stronzate», che è in sintonia con la sua trentennale campagna denigratoria nei confronti  di  Marylin Monroe  («Non posso spiegare quanto poco mi piacesse Marylin») e James Dean. Poi partendo dalle parole di Ellroy – «sono nato nell’epoca del film noir all’apice dell’era del film noir, è quello che mi ha formato, mi possiede» – Ellroy vs L.A. propone una raffinata e per nulla scontata antologia di sequenze tratte da: Behind Green Light (1946) di Otto Brower,  Dick Tracy, Detective (1945) di William A. Berke, He Walked by Night (1948) di Alfred L. Werker e Anthony Mann, Hootenanny Hoot (1963)di Gene Nelson, The Pick-Up (1968) di Lee Frost, The Sex Killer (1965) di Barry Mahon, più la mitica serie Dragnet (1951-1959) di Jack Webb. A Ellroy si perdona tutto (dal razzismo in giù). Controluce Ellroy vs L.A. ci suggerisce che non si può non leggere la sua opera, che è opprimente, ingiusto, violento, che fomenta sentimenti opposti, dilania, avvince: cattura il lettore e non lo lascia più. Con la sobrietà che lo contraddistingue nel film ci spiega dove collocarlo: «non ho mai letto Dostoevskij, mai letto Tolstoj. Ma io sono il Dostoevskij americano perché rappresentiamo uomini, peccatori in cerca di redenzione che sanno di vivere nel peccato e che la loro stessa esistenza è un’offesa a Dio e che devono cambiare».
Amen.