Per Aspera ad Astra (Coconino Press, pag.376, euro 25) di Lorenzo Fonda, è un’opera autobiografica a fumetti che inizia con un lutto, la scomparsa di Elena, la moglie dell’autore, che segna l’inizio del resto della sua vita. Il libro è sui generis, un diario a tecnica mista che mescola la quotidianità con momenti di emozione e di catarsi profonda. In occasione di Lucca Comics and Games 2025 abbiamo intervistato l’autore.
Per Aspera ad Astra ha questo incipit molto particolare, estremamente spartano: immagine, frase, immagine, frase, poi, a un certo punto si rompe una diga metaforica e fai un uso smodato dalla parola scritta che va quasi a marginalizzare il disegno. Qual è il motivo di questa scelta estetica?
Un po’ tutte le scelte estetiche del libro sono uscite organicamente e abbastanza spontaneamente, mi sono detto fin da subito che non avrei seguito regole prestabilite, per quello quando mi sono trovato davanti a una scena in cui ritenevo ci fosse bisogno di un muro di testo con poche immagini, scrivevo e me e me ne sbattevo le balle. Certo, ho avuto paura che un possibile editore un giorno avrebbe potuto bocciare il mio libro proprio per l’eccesso di testo scritto ma per fortuna in Coconino Press sono stati perfetti, non mi hanno chiesto di cambiare praticamente niente. Abbiamo fatto giusto un leggero editing. Mi hanno lasciato la libertà di spaziare e ho potuto seguire il mio istinto. Ho realizzato un incipit spartano per rendere l’impatto del momento in cui ho perso mia moglie, che segna un prima e un dopo nella mia vita.

Di tutti questi eventi e pensieri che annoti, che sono una grande quantità ma ovviamente non sono tutti i singoli istanti che hai vissuto negli anni perché la nostra vita è più grande di quello che riusciamo ad annotare, quali momenti hai scelto? Secondo quali criteri hai deciso cosa annotare e cosa cos’hai lasciato andare?
Ho iniziato ad annotare anche le cose più basilari, la quotidianità, poi ho scelto di tenere una lista di momenti che avrei voluto disegnare e soprattutto di momenti collegati al percorso della malattia di Elena, momenti che comunque a me pesavano dentro ma che sapevo che, raccontandoli, li avrei allontanati da me o, se fossero rimasti, l’avrebbero fatto con una forma e un peso sopportabili. Immaginavo che sarebbe stato un processo terapeutico e lo è stato. Avrei voluto inserire più situazioni che, purtroppo, non ho fatto in tempo a disegnare. Le avevo già inserite nella sceneggiatura, però coi tempi produttivi e con il numero di pagine che avevo a disposizione non ce la facevo e così mi sono detto che dovevo darmi un limite. A ogni modo sì, volevo proprio inframezzare con la quotidianità, perché ho pensato che potesse essere interessane rispondere alla domanda: cosa fa un vedovo fresco di lutto? Dove va, chi incontra? Cosa pensa? Cosa mangia? Secondo me anche le piccole cose dicono qualcosa di una persona e quindi ho voluto scrivere questo dialogo tra situazioni molto intense e situazioni molto quotidiane.

La tecnica che usi è mista, c’è una predominanza di una certa estetica però tante volte esci dal seminato e fai delle variazioni. Come hai scelto queste variazioni di tecnica, hanno dietro un criterio o hai seguito puramente l’istinto quando, per esempio, usi la fotografia?
Faccio anche il regista, faccio l’animatore, ho sempre fatto un sacco di cose sono un artista abbastanza trecentosessanta gradi. Uno dei motivi principali, forse il principale, è che mi rompo le balle a fare sempre la stessa cosa. Io, Lorenzo Fonda, non riesco a non cambiare spesso per cui ho sempre spaziato con i linguaggi, i soggetti e gli approcci vari. Esploro come stile di vita e questo è anche sfociato anche nell’approccio con cui ho realizzato Per Aspera ad Astra che a tratti è basato su un altro libro che ho pubblicato per conto mio, con un servizio print on demand, un diario illustrato che ho tenuto quando sono stato a Cuba nel 2015. Anche lì avevo giocato con vari linguaggi e vari approcci visivi, quindi ho pensato di provare a rifarlo però ingrandendolo. Le foto sono arrivate dopo, le usavo come segnalibri per ricordarmi che volevo raccontare quel che mi succedeva, invece che prendere appunti inserivo nell’impaginato questa o quella foto. Pian piano mi son detto che le foto funzionano, come break visivo e di storytelling, quindi abbiamo deciso anche con i ragazzi di Coconino Press di inserirle, in tal senso mi hanno proprio incoraggiato a metterne più di quante avevo inizialmente previsto.
C’è un momento nel libro, quanto meno a livello di significato ma anche forse a livello estetico, che è centrale: la parata di Xaudade. Ce la racconti un po’? Che ruolo ha avuto nella tua vita e in quella delle persone che ti circondano?
La prima volta che l’abbiamo fatta è stata una cosa iper catartica, è successa quaranta giorni dopo la morte di Elena, quindi eravamo ancora tutti i caldi per quel che era accaduto. Secondo me la sua forza è proprio quest’emotività, questa catarsi che abbiamo sperimentato a livello del gruppo, è rimasta così tanto che ci siamo detti che dovevamo ripetere questa cosa, per cui è diventata un evento annuale. Per chi sta leggendo la Xaudade è una parata in costume. La prima volta abbiamo indossato costumi basati quasi tutti sui personaggi che lei aveva disegnato e quindi era un modo per onorare Elena e il suo lavoro come artista, è stata una parata che abbiamo fatto per le vie di Marostica, quaranta giorni dopo la sua morte perché in varie culture sparse per tutto il mondo, in tanti posti c’è questa idea che dopo la morte l’anima vaghi per quaranta giorni, ancora nel piano terrestre. Bardo è un altro termine per questo questa credenza, al quarantesimo giorno l’anima viene incoraggiata a passare al prossimo stadio di esistenza. Adesso abbiamo deciso di aprirla al pubblico e ogni anno stiamo cercando di ingrandirla sempre di più, almeno nella mia visione mi piacerebbe che diventasse una cosa che attira centinaia di persone che arrivano, si fanno il loro costume e partecipano.

Tornando al discorso dello stile, perché tu hai deciso di rappresentarti in quel modo molto iconico con la felpa che diventa la tua seconda pelle?
Mi rappresento così quando disegno fumetti autobiografici, ovvero da almeno quindici anni, ho iniziato a disegnarmi così forse perché qualcuno mi aveva fatto notare che usavo la felpa col cappuccio davvero tanto, quindi proprio per scherzo ho iniziato a rappresentarmi in quel modo. La felpa col cappuccio quando te la metti è anche un modo per proteggerti dal mondo circostante, un’armatura. Secondo me simbolicamente è proprio per quello, per cui indosso sempre la felpa quando mi disegno, anche se faccio un bagno in mare non me la tolgo, se faccio l’amore non sono nudo ma porto la felpa col cappuccio. Mi fa ridere ed è anche un modo per sdrammatizzare.
Verso l’inizio del fumetto dici una cosa molto forte: quel sacco di plastica non conteneva Elena, ne conteneva soltanto il corpicino. Per te che cos’è un essere umano?
Domanda facile! Quella frase già mezzo risponde alla domanda. Un essere umano è l’insieme delle esperienze che ha fatto a quel momento, è l’insieme dell’esperienza che quella persona ha fatto di altre persone. Queste due prospettive vanno a influenzare i suoi pensieri. La sensibilità di una persona viene sempre sempre da quello che ha provato fino a quel momento. Un essere umano è qualcuno che tramite la sua agency, la sua spinta alla vita influenza il mondo in qualunque maniera decida di fare mettendo così un piccolo tassello nella storia dell’esistenza umana.
A proposito di tasselli messi nell’esperienza umana, qual è secondo te l’eredità umana e artistica che tua moglie Elena ha lasciato a te, alle persone che hai intorno e al mondo?
Secondo me la sua eredità è la sua sua gioia di vivere, l’entusiasmo per la vita che aveva prima della diagnosi ma che comunque ha dimostrato anche dopo. Mi piace pensare che ci abbia ispirato a vivere appieno e a cercare di di realizzare i nostri sogni. Quello che sappiamo fare, diceva lei, dobbiamo realizzarlo e spingerlo ancora più avanti.


