Arrabbiato ma non troppo: The Running Man di Edgar Wright, un adattamento che non affonda il colpo

Ben Richards è stato licenziato. Di nuovo. Il motivo: l’ennesima insubordinazione. Si è esposto per i suoi compagni denunciando a un sindacalista l’effetto nocivo delle scorie radioattive prodotte dalla fabbrica per cui lavorava, il che non è saggio in un futuro dominato dal capitalismo della sorveglianza più sfrenato e allo stadio terminale. Ben Richards è ormai bollato come una persona problematica per cui trovare lavoro è praticamente impossibile, ed è un problema visto che le medicine per la sua bambina, che rischia la vita per una semplice influenza, non sono alla portata della paga che sua moglie percepisce facendo la cameriera in un locale per soli uomini. Per questo Ben si reca alle selezioni per uno dei seguitissimi giochi a premi del Network, competizioni estremamente pericolose che pagano premi in denaro sostanziosi. Il problema è che viene selezionato per The Running Man, una gara che potrebbe anche farlo diventare ricco, a patto che sopravviva trenta giorni con un’intera nazione alle sue calcagna, autorizzata a ucciderlo a vista. Quest’anno, forse non a caso, ha visto uscire al cinema l’adattamento dei due romanzi più politici di Stephen King: The Long Walk di Francis Lawrence, tratto da La lunga marcia, e The Running Man di Edgar Wright, tratto da L’uomo in fuga. Il fatto triste e singolare è che i due film sembrano accomunati dallo stesso pregio e dallo stesso difetto: sono due film godibili, forse il lavoro di Lawrence pure qualcosina di più, considerando il rapporto come minimo problematico tra i libri di King e i film da cui sono tratti, ed entrambi non riescono a portare fino in fondo il nichilismo e la rabbia che stanno alla base della presa di posizione politica del Re.

 

 
Certo, The Running Man è in tal senso un salto in avanti rispetto al primo adattamento di Glaser del 1987, quel fumettone sopra le righe con Schwarzenegger omaggiato dal regista in un easter egg, che sì era divertente ma con il libro di King poco aveva a che vedere. Stavolta la sceneggiatura è molto più fedele al libro nella trama e, per certi frangenti potrebbe sembrare, anche allo spirito del romanzo. Wright mette insieme un distopico d’azione dal ritmo concitato che in più di un passaggio sembra bello incazzato, sovversivo e caustico nella critica che porta avanti. C’è la disperazione e l’esplosione violenta della frustrazione di chi è destinato a rimanere fra gli ultimi, tutto sembra andare come deve ma poi il film si perde. Il problema non sarebbero nemmeno dei dettagli tra il patetico e il retorico su cui Wright insiste per far leva sulle emozioni degli spettatori, stiamo parlando di un film commerciale hollywoodiano e queste sono un po’ le regole del gioco non è il massimo della vita ma non ci si scappa e non vale la pena farcisi sopra il sangue cattivo, ma il problema è che tutto viene buttato in caciara e la sensazione, a un certo punto è che l’ironia serva non a rendere il messaggio più tagliente ma a stemperarlo, a smorzare la carica rabbiosa e sovversiva del testo da cui il film è stato adattato.

 

 
Ci sono un paio di passaggi che sembrano proprio una sconfessione in extremis della critica profonda che il film vorrebbe portare avanti, e in generale delle situazioni inserite nel film e non presenti nel libro che vogliono smussare gli angoli di una storia che affonda il colpo fino in fondo risultando in un punto in particolare, visto l’anno di pubblicazione, sinistramente profetica ed è proprio su quella scena, chi leggerà il libro e guarderà il film se ne renderà conto, che gli sceneggiatori hanno messo le mani per rendere il prodotto più digeribile, facendo analogo, ma qui forse più grave, di quello compiuto con The Long Walk. Un’occasione mancata che dice molto della realtà che il film stesso vorrebbe criticare.