FilmmakerFest – Un capolavoro di immensa potenza teorica: Put Your Soul on Your Hand and Walk di Sepideh Farsi

Non dimenticheremo il sorriso di Fatma Hassona, i suoi occhi che brillano dietro gli occhiali o senza di essi, il suo volto di giovane donna incorniciato dal velo nel rispetto della sua religione. Fatma Hassona era di Gaza, era una fotografa, documentava con i suoi scatti gli orrori quotidiani dell’invasione israeliana, voleva rimanere a vivere nella sua terra, accanto al suo popolo, era una questione di attaccamento e di resistenza. Aveva compiuto 26 anni da un giorno quando, il 16 aprile 2025, con sei membri della sua famiglia, è stata uccisa nel sonno da un bombardamento israeliano che ha colpito la loro casa. Poco più di un anno prima era stata contattata dalla regista iraniana esule in Francia Sepideh Farsi per realizzare insieme un film sulla tragedia in atto nella Striscia. A Farsi era stato negato l’accesso e così cercò una persona che potesse “vedere per lei”, con la quale instaurare un dialogo a distanza, una conversazione da portare avanti tra le molteplici difficoltà del comunicare in uno stato di assedio. Le due donne, di generazioni differenti ma unite, seppur in modo diverso, da esperienze di repressione, divennero amiche, le loro video chiamate tramite i cellulari un “rituale” per sentirsi vicine, condividere e trasmettere le loro emozioni, conoscere in diretta dalla voce e dalle immagini di Hassona quel che accadeva a Gaza. Durò quasi un anno questo “rituale” e Farsi filmò tutto con l’intenzione di farne un film. E quando la regista dice a Hassona che il film è stato selezionato dal festival di Cannes (ma solo nella sezione parallela e autonoma dell’ACID) la giovane palestinese è felice, magari potrà andare all’anteprima e incontrare la sua amica. Si salutano. Un ultimo sorriso. “Ci vediamo”. Poi, la morte. E il film che assume il valore di una testimonianza assoluta.

 

 
Put Your Soul on Your Hand and Walk (presentato fuori concorso a Filmmaker Festival di Milano e in uscita nelle sale il 27 novembre con il sottotitolo Prendi in mano l’anima e cammina) è la documentazione di questo anno di relazione tra due donne, scandita dalle date degli incontri (dal 24 aprile 2024 al 15 aprile 2025, ovvero “l’ultima conversazione”), da un incedere incalzante, “thriller”, che, attraverso un montaggio serrato e al tempo stesso fluido, trasmette magistralmente il senso dell’attesa di incontrarsi ancora una volta, la materializzazione dell’attesa negli incontri video che spesso si interrompono per via dell’instabilità della rete internet a Gaza, che vanno riavviati per ri-trovare quel volto sorridente che nasconde, e a volte mostra, sofferenza, dolore, precarietà totale, fino alla depressione che Hassona confessa di patire, “ma a Gaza non ci sono medici con cui parlare”, e che permarrà finché non sarà posta fine al genocidio. Vediamo in video Fatma Hassona e vediamo, nelle stesse immagini, il volto di Sepideh Farsi. Lo schermo del cellulare di Farsi li contiene entrambi o si concentra su uno dei due, quasi sempre quello della fotografa. Che, invogliata dalla cineasta, sposta il suo medium per mostrare cosa vede dalla finestra, squarci di Gaza devastata, o persone che le stanno accanto, come i due fratelli o una bambina. E, in una sorta di controcampo, Farsi apre l’inquadratura verso alcune stanze del suo appartamento parigino per fare entrare i due gatti. Si creano giochi di specchi, rimandi, assonanze nonostante i contesti così agli antipodi – Hassona intrappolata a Gaza, Farsi libera di spostarsi per lavoro ma comunque non libera di rientrare nell’amato Iran, la sua terra, perché verrebbe imprigionata.

 

 
Questo è il lato sociale, politico, di cronaca del film, e di tale lato non vorremmo mai smettere di vedere altro, ancora, sfumature, parole, le fotografie di Hassona che in vari momenti punteggiano il racconto. E poi c’è quello, altrettanto essenziale, della forma che dà un senso al tutto, che permette di andare oltre la semplice raccolta di dati e situazioni e di rendere quanto vediamo per quasi due ore cinema allo stato puro, scaraventati in un territorio che sbriciola le definizioni del documentario o dei generi o del film ibrido. Sepideh Farsi riesce a portare questa materia incandescente negli spazi della riflessione semantica, facendo in tal modo un film d’immensa potenza teorica. Non c’è immagine che non contenga una riflessione sul filmare e sul vedere, che non sia abitata da una pluralità di schermi in funzione di split-screen che moltiplicano i punti di vista. Schermi dentro schermi. Profondità di campo e primi piani. Dialogo tra campo e fuori campo in una continua messa in discussione della visione, suo ri-posizionamento, rappresentazione di ciò che i mezzi di comunicazione possono produrre. Put Your Soul on Your Hand and Walk (il titolo riporta una frase detta da Fatma Hassona a proposito di quello che fai, che lei fa, quando si esce in strada) parla di libertà e di avere un proprio posto nel mondo (Hassona ricorda a Farsi un film che le è rimasto impresso, The Shawhank Redemption, ovvero Le ali della libertà; Farsi le parla del libro di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé). È un film che andrebbe fatto vedere il più possibile per il suo alto valore etico e usato come testo per studiarne il suo alto valore estetico. Un capolavoro.