Un intervallo brevissimo, quasi fulmineo, quei 40 secondi in cui, nel 1999, il giovane Willy Monteiro Duarte perse la vita a seguito del feroce pestaggio perpetuato dai fratelli Bianchi. Nello specifico, 40 secondi è esattamente il tempo trascorso dal momento in cui i due bruti scesero dalla loro auto a quando vi risalirono dopo aver commesso il fattaccio. Un tempo della morte, che però il film di Vincenzo Alfieri dilata e scompone per farne punto d’affaccio alla vita, quella del mondo che attorno a Willy ruotava. L’evento tragico viene così scomposto e rivisto attraverso una serie di percorsi, che convergono sì verso l’istante finale, ma prima aiutano a entrare meglio in quel microcosmo per capirne gli umori. È un mondo di provincia, un luogo all’ombra della grande metropoli romana, che vive di chi lo ama pur odiandolo e viceversa, diviso fra l’istanza di voler fuggire per farsi una vita migliore altrove o restare perché lì ci sono le radici, gli affetti, le famiglie e le amicizie. Una sorta di luogo-intervallo in cui pure ogni differenza sembra sospesa, accomunati come sono i personaggi dalla fluttuazione in quel destino incerto. Ci sono i gemelli che curano ossessivamente la forma fisica, i ragazzi che vogliono vincere l’isolamento e sentirsi parte di un qualcosa, le ragazze che vivono le loro storie e Willy che sogna di dare seguito alle sue abilità in cucina lavorando in un ristorante stellato dove forse avrà l’occasione di farsi notare dallo chef.

É un melting pot variegato ma compatto, dove il figlio napoletano del commissario è un tutt’uno con gli amici romani che lo canzonano simpaticamente e il capoverdiano Willy è figlio di quei luoghi tanto quanto i compagni che nel paese vivono da più generazioni. Poi ci sono gli adulti, una cinta esterna che vigila (il Commissario) o vagheggia (il Professore che non si accorge di nulla) e non sembra afferrare davvero il senso di quanto accade, impreparato agli intervalli che quel precario equilibrio può far esplodere all’improvviso, in 40 secondi appunto. Alfieri segue le varie storie con sguardo equidistante, senza esprimere giudizio, mostra i carnefici nell’intimità familiare, affettuosi con la madre e litigiosi con il padre, uno dei due è prossimo alla paternità ma poi si imbosca con le ragazze per non sfigurare di fronte al fratello. E gli altri ragazzi fra scherzi e scaramucce della sera. L’immersione nel mondo giovanile è empatica e lo porta a eccedere nella forma, macchina sempre in movimento, frenesia di montaggio e un racconto che sembra a tratti febbricitante, quasi sfugge di mano. Superate le perplessità iniziali, l’insieme si rivela lucido per come contrappone le energie giovanili alla natura più crepuscolare dell’età adulta, come nello splendido e sofferente confronto fra il Commissario e il Professore (rispettivamente Francesco Di Leva e Sergio Rubini), che alla frenesia e al parlare convulso dei ragazzi oppongono i silenzi imbarazzati di chi è fuori dal tempo.

Il film si dimostra così capace di descrivere un mondo ideale nella sua orizzontalità ma dolente nella verticalità delle frustrazioni latenti da umanità marginale – che teoricamente iscrivono il film in un mini filone italico sulla provincia, si pensi al più ameno Margini, di Niccolò Falsetti. In questo senso va interpretata pure la geniale conclusione “doppia”, quasi una sliding door che alla forza tragica della realtà contrappone anche un’ipotesi di successo che Willy quasi riesce ad abbracciare. Una scelta che fa il tutt’uno con un racconto di ricostruzione storica (la base è il libro omonimo di Federica Angeli), ma realizzato con i crismi della più pura finzione (a parte Willy, nessuno dei personaggi ha il nome di quelli reali), archetipico quindi, perché quello che interessa non è soltanto il fatto contingente, ma il ritratto di un mondo che esprima i tragici equilibri e i malesseri dei nostri tempi.


