Un giapponese nelle terre del sogno: L’innominabile e altre storie, il nuovo adattamento lovecraftiano di Gou Tanabe

Scrittore e ricercatore nell’ambito dell’occulto, Randolph Carte si trova spesso, per via delle sue ricerche, in situazioni ove il confine tra il reale e l’inimmaginabile, dove vivono creature tanto inconcepibili che nel migliore dei casi sono in grado di spingere gli esseri umani sull’orlo della follia. Talvolta solo, talvolta insieme a sodali come Hayley Warren, Carter investiga le pieghe della realtà sconfinando non di rado nelle Terre del Sogno, una dimensione onirica alla quale lo scrittore accede grazie al simbolico artefatto chiamato La Chiave d’Argento, lasciatagli in eredità dai suoi antenati, il cui destino da sempre incrocia quello delle forze occulte, e contenuta in una scatola di legno coperta di misteriosi intagli. Ma le Dreamlands non sono appannaggio del solo Carter, altre entità, umane o meno, le attraversano non uscendone sempre indenni. Il lavoro del mangaka Gou Tanabe, il mangaka che da lungo tempo adatta i racconti di H.P. Lovecraft trasformandoli nelle storie a fumetti che lo rendono famoso, è un atto d’amore rispettoso e certosino che coglie efficacemente lo spirito del Solitario di Providence rispettandone la poetica e le atmosfere.

 

 
Il volume L’innominabile e altre storie, parte della collana con cui J – Pop Manga (pag. 282, euro 7,50) sta portando in Italia il lavoro lovecraftiano di Tanabe, è dedicato in particolar modo a Randolph Carter, vero e proprio avatar di Lovecraft che rappresenta lo scrittore nelle sue opere di fiction, oltre che personaggio preminente del Ciclo dei Sogni, serie di racconti ambientati nelle Terre del Sogno, un territorio onirico che con l’universo narrativo tradizionale di Lovecraft condivide alcuni aspetti fondamentali come la presenza di divinità. Anche a livello di atmosfere il Ciclo dei Sogni si integra nella poetica lovecraftiana, con l’idea di una verità che sta sotto la superficie ed è troppo aliena perché gli esseri umani possano comprenderla, in un pessimismo cosmico che si vede infinitamente piccoli e in balia di forze infinitamente più grandi di noi, al cui solo contatto siamo destinati a perdere tutto.

 

 
Tanabe non soltanto racconta l’orrore di Lovecraft, ma lo fa come Lovecraft rispettandone i tempi e il modo di dosare la paura e la tragedia, poco per volta ma anche poco in generale, mostrando il minimo indispensabile e giocando tutta la costruzione dello spaventoso sull’anticipazione e sullo scivolamento lento verso una dimensione inquietante, verso qualcosa che è oltre un confine che blocca lo sguardo e lascia tutto all’immaginazione che fa in proprio lavoro massimizzando il disagio. Tanabe in questo solco ci si pone benissimo, con una narrazione lenta e riflessiva che si concentra più sull’effetto che l’orrore fa sulla mente umana, un senso di oppressione massimizzato da tavole scure costruite su toni di nero e di grigio, con un tratto realistico che perde di coesione mano a mano che gli esseri umani si avvicinano all’orrore ultraterreno e le forme degli oggetti paiono sciogliersi per rimodellarsi in una configurazione che sembra pensata per sfuggire ai nostri sensi oltre che alle nostre categorie. Il Lovecraft di Tanabe è la misura della profondità con cui l’immaginario del solitario di Providence si è impresso nell’inconscio collettivo.