Il discorso di Kaufman sulle strutture linguistiche, come fondamenta e materia sottesa alla realtà, efficace altrove, anche a volte risolto in semplicità, in semplice sgomento (di ciò che sfugge al segno, e frana, come franavano i ricordi di Joel), tra sceneggiature e regia; ora in Anomalisa è latente, solo accennato (come dire: “è risaputo”, kaufmaniano) nella misura di una realtà (dei discorsi senza senso, discorsi noiosi, solo utili) che ingombra tutta la messa in scena, lasciando poco spazio alle aperture (dei) significanti, fatta eccezione per il canto finale della geisha meccanica, dispositivo erotico forse più autentico di ogni altra carne (di pupazzo, di cartone animato). Fenomenologia della chiacchiera, dell’indistinzione di pronuncia e profilo mascolini; di qualcosa di simile allo small talk sviluppato intorno a Like A Virgin di Madonna, e ora redivivo all’insegna di Girls Just Want A Fun di Cindy Lauper, preannunciato all’inizio, il chiacchiericcio, su quadro nero, sibilante blaterare sull’aereo: vociare spigoloso, fastidioso come le giacche e le camicie di cui è vestita la media borghesia che viaggia per affari.
La canzone di Lauper è sineddoche del film (solo che ora manca la scoperta e la pratica della nuda impalcatura linguistica, restando la vita stanca e banale di un maestro dell’autoconvincimento, canuto e stizzito dal vociare, correlativo oggettivo e fonico di una vita senza canto di donna): la svagatezza semplice e un po’ gretta di due impiegate del servizio clienti di una qualche azienda votata al plusvalore spinto, le quali lavorano tutto il tempo per mettere da parte i soldi necessari ad andare in vacanza in un hotel di lusso a Cincinnati, loro, comuni donnine al servizio del cliente, che vogliono solo divertirsi, want a fun, e sono ora a contatto con la moquette e con il servizio in camera del Fregoli. È questa la dimensione estetica del film: il contesto alberghiero in cui si dipana lo small talk, il servizio clienti (invadenza del tassista con il suo zoo, camerieri ciarlanti, lo zelo del centralinista) e soprattutto l’aspirazione (di Lisa e di Emily) di passare, sia pure per una settimana, dalla condizione di servizio a quella di cliente, il cliente servito in una transeunte posizione di agio, sempre in rapsodia di ciancia. Ed è qui, in questo contesto crepuscolare, smorto anche nei colori, cadenti (squallore delle piccole cose, small talk mascolino, che non rimandano ad altro che alla loro insignificanza e cacofonia) che scatta il richiamo del sesso, in quella particolare versione che è il sesso-da-camera, la consumazione estemporanea, di servizio appunto: e tale resta l’effusione con Lisa, voce d’angelo, perchè poi si rivela voce e volto di maschio, invischiata come le altre nell’ecosistema cisposo della media borghesia in regime di comunicazione di servizio. Non si esce dal carcere di servizio, del servizio clienti, del vuoto blaterale (anche e soprattutto motivazionale), della camicia a righe e la canizie compunta del medio borghese annoiato, dell’agente di commercio profumato di morto; e Lisa non è uscita di servizio da questo sistema di chiacchiere, crepuscolo, cispa (che è il film, prima ancora che il mondo) ma solo illusione, autoinganno, varco che riporta Michael alla sua noiosa vita coniugale. Ma lui non è da meno: non si riesce a credere alla sua disperazione, a prendervi parte; anzi Michael, con la sua stizza perenne, la supponenza, la sua complessione ultraborghese, utilitarista, merita la noia e il vuoto di cui lui stesso è artefice, merita di non sentire più il canto (di certo cinema), ma noi no, o almeno alcuni di noi.