La libertà e l’angoscia, e la vertigine del futuro. L’idealismo di Alain Guiraudie è un’equazione con incognita, che vorrebbe spiegare il mondo ma finisce sempre col non far quadrare il risultato. Anche in Rester vertical il punto è sempre lo stesso: identificare la traccia che consente al protagonista di tenere il sentiero della propria vita proprio mentre la bussola impazzisce e le coordinate variano. Léo è un regista, cerca storie e personaggi per riempire le pagine ancora bianche della sceneggiatura che il produttore gli sta già pagando. Come tutti i personaggi di Guiraudie, Léo è una figura mobile, un’idea indefinita che vaga in un fuori tempo da cui trae determinazione e (in)coscienza. Il paesaggio è quello, placido e selvatico, della Lozère, la parte interna del solito sud della Francia: vallate in cui pascolare greggi, case di campagna abitate da vecchi contadini sporchi di lavoro, boschi percorsi da fiumi da percorrere in cerca di alchemiche veggenti da fiaba. Un agglomerato di surrealtà in cui questo regista disperde se stesso, stretto in uno smarrimento che gli viene da dentro, uno stupore un po’ angosciato che pullula di premonizioni, sentimenti, visioni. Vorrebbe abbordare Yoan, il ragazzetto che incrocia lungo la strada ma che lo respinge testardamente, preferendo restare con il vecchio brontolone fissato col rock, di cui è amante e badante. Segue Marie, che pascola il suo gregge con un fucile in mano per difenderlo dai lupi famelici della regione, va a vivere con lei e con il vecchio padre silenzioso, la mette incinta, ne cresce il figlio anche quando lei, stanca delle sue reiterate assenze, glielo molla e va a vivere con Yoan.
L’indefinito presente in cui Guiraudie si agita è sempre più uno scenario della coscienza che attanaglia il suo protagonista: il film è vago e preciso come una profezia, intriga l’allegoria di cui si nutre e la scioglie in un senso fiabesco degli eventi. Il regime è prettamente guiraudiano, insomma, non lascia requie al suo eroe, lo affida al vecchio sogno che si agita dentro di lui. Solo che, a differenza dello Sconosciuto del lago, che era film concentrico e ossessivo, in Rester vertical Guiraudie spinge ancora oltre il senso dello smarrimento da cui un po’ tutti i suoi lavori nascono, lo incarna in una premonizione indistinta che sembra nascere dall’angoscia dei tempi, o forse dal ritrovarsi, come il regista Léo, nel mezzo del cammino avendo smarrito la diritta via… Il concetto del periplo che spinge il protagonista in un fuori tempo da cui è destinato a uscire diversamente prigioniero è in realtà una prigionia surreale, l’obbligo a restare in piedi (come recita il titolo francese) nell’ora dei lupi in cui siamo calati, conseguenza non secondaria dello spirito che animava il suo film precedente. Qui però non è la morte a condurre il gioco, ma la vita. Rester Vertical è opera in cui la simbologia del nascere germoglia dal cuore di tenebra di un personaggio angosciato, esattamente come la sessualità è poco giocosa, piuttosto un atto dovuto alla vita tanto quanto alla morte (la già celebre e discussa scena dell’eutanasia che fa rima con sodomia…). Il sacrificio è espressione di una sorta di cristologia in nuce che inconsciamente occupa da sempre il cinema prettamente avventizio e messianico di Guiraudie. L’evocazione fiabesca e surreale garantita dalla figura della sciamana del fiume è il perimetro estremo di quel rapporto destabilizzante che Guiraudie intrattiene con la narrazione logica, con la consequenzialità degli eventi drammaturgici. Questa è chiaramente la storia di un regista che non sa che storia raccontare. Ovvero la storia di un uomo che non sa di che vita vivere. O morire.