Otto anni dopo l’ultima avventura, il panda più flaccido e mitico dell’immaginario cinematografico colpisce ancora rilanciando una delle saghe più importanti dell’animazione contemporanea e, probabilmente, riscattando (almeno dal punto di vista commerciale) le sorti della Dreamworks giunta a un punto di non ritorno dopo i recenti passi falsi. In cantiere da alcuni anni, già nel 2010 Katzenberg dichiarò che dopo il terzo capitolo ci sarebbero potuti essere altri tre titoli a completamento di un franchise che nel frattempo si espandeva nutrendosi di tutti i possibili formati mediali. Non casualmente il progetto è stato affidato al rodato Mike Mitchell (affiancato dall’esordiente Stephanie Stine), per la casa madre già alla guida di efficaci operazioni come i tre sequel di Shrek ma anche di ambiziose scommesse come Trolls (2016) e soprattutto Z la formica (1998) che segnò l’ingresso nel mercato dell’animazione, coniugando attrattiva spettacolare, sperimentazione e gusto cinefilo che andavano a contrapporsi all’oligarchia disneiana. L’usato garantito inteso come marchio di una fabbrica dei sogni che, fin dalle origini, non ha mai nascosto una certa cultura del riciclo, spesso valorizzando poche idee (ma buone), talvolta azzeccando indimenticabili colpi di genio.
Lo schema di questo quarto lungometraggio è pressoché identico ai precedenti e, se è vero che squadra che vince non si cambia, sul fronte estetico e dei contenuti la saga ha permesso a DreamWorks di cogliere due panda con un raviolo. Come si poteva intuire al termine del terzo capitolo, in qualità di Guerriero Dragone, Po è diventato un riferimento di coraggio e abilità per la Valle della Pace. Mentre assiste Ping e Li Shan nell’apertura del loro nuovo ristorante, tutto inizia e torna al cibo come ricordava la forza delle interiora, Maestro Shifu gli comunica che per lui è giunto il momento di crescere e passare ad un successivo livello spirituale: assumere il ruolo di guida della Valle della Pace. Assumersi questa responsabilità significa individuare il suo degno erede e farsi da parte, consegnando il testimone al nuovo Guerriero Dragone. Ma chi sarà in grado di sostituirlo? E chi invece osteggerà questo passaggio di consegne? Appassionare i piccoli neofiti del kung fu e i grandi cresciuti a pane e Karate Kid grazie all’eroismo del goffo ma invincibile Po, maldestro ma sorprendente per simpatia, dedizione e generosità è l’intenzione originaria che abbraccia senza indugio una dimensione simbolica sospesa tra fantasy e spiritual, senza ripiegamenti eccessivi nel citazionismo più ludico e nella parodia cinefila, ammiccando a riflessioni filosofico-religiose for dummies, direzioni che proiettano lo sguardo verso nuovi orizzonti commerciali, almeno per quanto riguarda una major statunitense.
Nella Valle della Pace gli innocui abitanti sono realizzati con forme morbide che richiamano l’armonia in contrasto con linee rette e dure riferite a oggetti appuntiti, taglienti, spigolosi che compaiono quando l’azione diventa pericolosa o si collega all’entrata in scena di personaggi e situazioni ostili. Pur mantenendo la volontà di realizzare una simpatica favola morale del tutto immersa in un universo animale antropomorfizzato (qui, come in Shark Tale o Trolls, gli umani non esistono), pare evidente che in termini produttivi e artistici la scommessa più grande sia stata quella di rispolverare il wuxia applicando le regole del genere a un film d’animazione pensato per il grande schermo. Per tale ragione, pure in questo quarto capitolo, le scene d’azione e di combattimento rappresentano l’elemento che contraddistingue il ritmo della narrazione e la messa in scena, come accadeva nei precedenti tre lungometraggi. Ma il vero elemento sovversivo di questo quarto (ultimo?) capitolo della saga è la scelta del villain, tanto ancorato alla tradizione dei perfidi nemici della factory, quanto legato all’attualità del nostro mondo. Infatti, se da una parte Camaleonte (è femmina, ricorda una delle matrigne disneiane) è un mutaforme che si appropria dell’anima dei suoi antagonisti e mira a liberare le anime imprigionate proprio da Po nei capitoli precedenti per impossessarsi dei loro poteri e diventare invincibile, dall’altra è il rispecchiamento dei valori che incarna ad essere guardato come un elemento di rottura e continuità, con il mondo Dreamworks e con il nostro mondo. Kung Fu Panda 4, senza esasperare il discorso e senza raggiungere le vette eccezionali del film originario, intavola una riflessione audace sul nostro presente perché si trova a fronteggiare finzione, menzogna, maschere, ambiguità e falsità.
Il panda Po si trova a fare i conti con la perdita di fiducia e con la possibilità di credere nuovamente in una potenziale amicizia, si scontra con la solitudine, con la perdita di senso. È questo il punto. Andare avanti, trasformarsi e mantenere la propria anima, costruire alternative. E stiamo parlando di animazione contemporanea.
A scanso di equivoci, Zhen non è un lupo bensì una volpe asiatica. D’altra parte è furba come una volpe, astuta, agile. Tuttavia, l’aspetto più significativo di questo personaggio destinato a diventare il nuovo Guerriero Dragone è il suo passato: Zhen condivide con Po il dramma dell’abbandono ma, anziché essere stato allevato da un animo buono, incontra le grazie opportuniste di Camaleonte e cresce rubando e imbrogliando. Dreamworks non gira intorno alla questione: il futuro (della casa e della sua proposta di animazione, anche per via della CGI e delle AI) dovrà fare i conti con il passato, soprattutto se è imperfetto e malandato, ammaccato, ferito. La strada da seguire è questa, è sempre stata questa e sarà questa. A tal proposito, non meraviglia come nell’ultimo periodo la factory statunitense abbia incontrato più di una fatica per mantenere alto il rapporto tra qualità e intrattenimento, senza riuscire a trovare il giusto equilibrio con le formule del suo successo: Il piccolo yeti (2019) e Ruby Gillman – La ragazza con i tentacoli (2023) sono titoli incapaci di innovare e proporre nuove narrazioni, così come Trolls World Tour (2020), I Croods 2 – Una nuova era (2020), Spirit – Il ribelle (2021), Baby Boss 2 – Affari di famiglia (2021), Trolls 3 – Tutti insieme (2023) sono sequel stanchi e ripetitivi vittime della dittatura seriale poco propensa a rimescolare le carte diversamente da quanto si evince da prodotti seriali distribuiti in televisione (Trollhunter e Jurassic World su tutte). Le uniche punte nell’ultimo lustro sono rappresentate da Troppo cattivi (2022), brillante rivisitazione del genere rapine e ladri, Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022), ottimo esempio di rilettura e reboot della saga e innovazione artistica, e il caso di Orion e il Buio (2024) purtroppo distribuito soltanto su Netflix ma capace di andare nelle profondità del racconto esplorando il confine tra sogno e realtà. Tre esempi utili per capire che Dreamworks deve restare se stessa, prendere le misure delle sue potenzialità, costruire consapevolmente immaginari alla sua portata senza smarrire la propria anima. Solo in questo modo riesce (ancora) ad ottenere risultati importanti, a competere in un mercato sempre più frammentario, a tramandare il suo testimone. Kung Fu Panda 4 mira dritto a questo obiettivo, come ricorda la cover dei Tenacious D sui titoli di coda: one more time.